(Riassunto) Medioevo: Istruzioni d’uso di Francesco Senatore

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INDICE

Premessa. 3

Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio. 3

1.1         Luoghi e popoli 3

1.2         Stati e stato. 9

1.3         La Psicologia dei personaggi 11

1.4         L’anacronismo, compagno della ricerca storica. 15

1.5         Per concludere: fatti e questioni 18

L’oggetto Medioevo e la disciplina “storia medievale”. 19

2.1 Che cos’è il Medioevo. 19

2.2 La periodizzazione: problemi di ricerca e di studio. 21

2.3 Periodi diversi per storie diverse. 23

2.4 Geografia della storia medievale. 25

2.5 La disciplina: problemi di focalizzazione. 28

2.6 L’idolo delle origini 29

2.7 Il Medioevo come paradigma dell’antimoderno. 31

2.8 Il feudalesimo, mostro inafferabile?. 32

Premessa

La storia medievale è difficile? Ci sono troppe date? Troppi fatti? Troppi personaggi storici? Di solito si tende a pensare il Medioevo con un paradigma negativo. È così? Il Medioevo dell’immaginario cinematografico e “scolastico” deforma il Medioevo “reale”. Non vi è un’unica traccia di comprensione al Medioevo, ma esistono più Medioevi e più storie medioevali.

Le fonti possono avere due esiti negativi: 1) la classificazione della fonte con rinvio ai relativi repertori può essere noiosa per lo studente; 2) la fonte può essere funzione meramente esornativa se non ben contestualizzata. La storia si fa con la critica delle fonti. Pertanto è fondamentale una correlata riflessione metodologica. L’analisi delle fonti si basa sulla complessità della storia e della ricerca storica, comportante problemi “soggettivi” e oggettivi”.

Il soggetto studente e le insidie del nostro linguaggio

1.1   Luoghi e popoli

I confini degli stati europei dal V secolo fino al XV secolo se paragonati con quelli odierni danno un’illusione di continuità.

Quegli stati non sono degli organismi viventi autonomi che dopo una serie infiniti di passaggi di dinastia formano quella cartina geografica. La continuità è sbagliata.

I nomi di Stati e di popoli nascondono realtà profondamente differenti. L’Inghilterra attuale è differente dall’Inghilterra normanna del XII secolo nel 1066 Guglielmo “Il Conquistatore”, duca di Normandia in Francia, conquistò l’Inghilterra ponendo fine ai regni preesistenti, frutto delle conquiste di angli e sassoni. Guglielmo fondò il regno d’Inghilterra, dominato da un’aristocrazia di lingua francese e di provenienza normanna e con una popolazione di lingua inglese.

[1]

E cosa dire su Napoli? Dopo la conquista longobarda della penisola (568), Napoli e la zona circostante rimasero sotto il dominio dell’Impero Bizantino, che era rappresentato in loco da un Duca. A metà del IX secolo, il ducato di Napoli divenne indipendente, poiché la carica di duca era controllata dall’aristocrazia locale (come avvenne a Venezia, da Duca a Doge). Napoli rimarrà tale fino al XII secolo, quando nacque il regno di Sicilia (comprendente il Mezzogiorno e l’isola siciliana). Ovviamente non corrisponde alla Napoli odierna.

È errata la visione di ritenere uno Stato come un individuo storico. Ad esempio l’ “identità” (di modi di vivere, di cultura, di parola) è un prodotto della storia. Ma la storia non è processo di ricerca di identità. I sassoni e gli angli sono diversi dagli inglesi odierni ad esempio.

[2]

Questo era un procedimento storico ottocentesco o meglio romantico. Quando leggiamo anglosassoni, pensiamo subito agli inglesi. È un concetto sbagliato.

Oggi qualcuno strumentalizza “fantasmi” del passato per richiedere autonomia amministrativa. Gli abitanti del Galles e della Scozia non sono uguali ai celti del V secolo. La scoperta di “radici” locali (vedi longobardi, sanniti o “padani” contro gli Italiani) si fonda su pretese, proprio come i patrioti italiani. Addirittura alcuni padani si rifanno alla memoria dei Galli “Senoni” (200 a.C. e 190 a.C.) o ai Longobardi, che non conquistarono tutto il Nord Italia poiché le aree costiere furono controllate dai bizantini (laguna veneta e Romagna orientale).

[3][4]

I popoli e i Stati sono il prodotto della storia. Non sempre un popolo ha mantenuto lo stesso nome. Bisogna comprendere tutte queste vicende, evitando comprensioni storiche “romantiche”.

1.2   Stati e stato

Gli storici insistono sulla totale diversità degli “Stati” del passato rispetto a quelli attuali. Giustamente si argomenta che lo Stato dell’800’ e del 900’ hanno caratteristiche precise (sovranità sul territorio, esercito per problemi interni ed esterni, monopolio del diritto, controllo del demanio pubblico, apparato burocratico indipendente dai condizionamenti della legge). Questo stato però oggi è andato in crisi dato l’interventismo di sanzioni economiche, forze militari di pace, organizzazioni militari e interferenze di diritto esterno (Unione Europea ad esempio).

Ma si può parlare di “stato” carolingio (VIII-IX secolo)? Era amministrato da funzionari locali, i comites o conti, rappresentanti diretti dell’imperatore nelle circoscrizioni territoriali loro affidate, i comitatus o contee. Esistevano funzionari territoriali con denominazioni diverse: i duces o duchi, i marchiones o marchesi, ma avevano funzioni simili.

I poteri del conte sono riassumibili nella formula hoste, via ac placito (esercito, strada e assemblea giudiziaria):

  • Il conte adunava l’esercito se necessario, controllando attraverso suoi emissari che tutti gli uomini liberi della sua circoscrizione obbedissero alla chiamata alle armi;
  • Il conte curava la manutenzione delle strade e delle fortificazioni pubbliche;
  • Il conte presiedeva il placitum, l’udienza in cui venivano giudicati i colpevoli di un reato

Il “conte” o “comes” per mantenersi in vita, costringeva gli uomini liberi a lavorare per l’interesse pubblico, fornendo fieno e altre derrate alimentari, a ospitare gratuitamente il suo seguito o i suoi guerrieri e giudici. Insomma il conte era un funzionario pubblico a cui era affidata l’amministrazione di una circoscrizione territoriale.

Il conte sembra operare per la difesa, le opere pubbliche, la giustizia, il fisco. Ma non è paragonabile a un funzionario statale di oggi. Egli non aveva formazione scolastico e professionale. Probabilmente non sapeva leggere o scrivere. Aveva a disposizione solo provvedimenti slegati fra loro. Non aveva un ufficio o una sede stabile. Doveva percorre incessantemente il territorio per governarlo. Un territorio che non aveva confini precisi, segnati da carte topografiche, ma era segnato da elementi naturali o di confino e si basava su testimonianze.

Il conte carolingio era semplicemente un guerriero. Le sue competenze erano la capacità di dare ordini e farli rispettare. Il conte viveva semplicemente in un contesto di oralità, di parola e di rapporti personali. Lo “Stato” era la parola giurata all’imperatore. Lo “Stato” era la concessione di fiducia e benefici provenienti dall’imperatore. Lo “Stato” era anche la protezione che lo stesso conte forniva ai suoi vassalli (qui è proprio da intendere come clienti), quindi o guerrieri o uomini liberi. Erano uno “Stato” fatto da persone e di forza militare.

Piccolo preambolo.

Gli ecclesiastici sono i membri dell’organizzazione della Chiesa (ekklesia) sia vescovi e sia sacerdoti.

I monaci e le monache erano laiche e decidevano di consacrare la propria esistenza alla preghiera (da soli se erano eremiti, in comunità se erano cenobiti, riuniti in cenobi o monasteri). Quindi i monaci vivevano una condizione di isolamento dal mondo, in modo da elevarsi spiritualmente a Dio, nel processo di ascesi. I monaci prima non erano necessariamente sacerdoti (oggi non è così).

I frati e le suore, invece, appartenevano a ordini religiosi sorti dal XII secolo. Erano riuniti in conventi, e non monasteri. Non volevano isolarsi dalla società, ma erano predicatori o testimoni della vita ispirata al vangelo e fondata sulla povertà.

Riepilogo:

Ecclesiastici Monaci e Monache Frati e Suore
Sacerdoti e vescovi Laici Ordini religiosi
Appartenenti alla Chiesa Eremiti o cenobiti Riuniti in conventi e predicatori di povertà

La parola “pubblico” era utilizzata proprio dai pochi letterati ecclesiastici o monaci. Entrambi scrivevano i capitolari[5], le leggi che l’imperatore inviava ai suoi conti. Questa disposizione era un residuo del passato, o meglio un ricordo dell’impero romano. La rappresentazione o suggestione ideologica era che chi conoscesse la storia romana riusciva ad influenzare addirittura l’imperatore.

1.3   La Psicologia dei personaggi

Alarico era un invasore? Era un barbaro che distruggeva, sottometteva, conquistare?

Carlo Magno ha sottomesso i Longobardi per fini espansionistici?

La guerra è lotta fra un personaggio positivo e uno negativo?

Le guerre hanno ragioni, condizionamenti, sviluppi assai diversi. Succede che il nostro immaginario (videogiochi, cartoni animati, ecc.) si sovrappangonga alla storia. La storia è intesa come lotta fra buono e cattivo, fra invasore e resistente, barbaro e civilizzato. Ma la storia mostra la complessità dell’agire umano. L’uomo non è rimasto uguale a se stesso. Cambiano piscologia, contesti materiali e culturali. Non dobbiamo sovrapporre la nostra psicologia, la nostra mentalità, i nostri valori culturali al passato.

La storia non si giudica con giudizi di valore, anzi, la guerra e la violenza non erano in passato dei disvalori in sé. Ad esempio un povero, uno schiavo, una donna, un neonato prima avevano un valore assai inferiore rispetto a un guerriero maschio. Nel passatto non era presente il concetto di inalienabilità o diritti umani presenti. Il passato va compreso. Prima “estendere il proprio potere o territorio” era un fattore positivo.

Alarico, saccheggiando Roma nel 410, non voleva distruggere l’impero. Egli non voleva e non era in grado di concepire un progetto militare e politico di tale portata. Altrimenti si sarebbe proclamato imperatore. Anzi questo famoso sacco era solo una rappresaglia. Alarico si sentiva un “alleato tradito”. I Visigoti erano legati all’impero romano dal legame di foederati. I Visigoti erano un indispensabile supporto militare. Le tribù federate combattevano insieme all’esercito imperiale, anche se non erano inquadrate stabilmente nei ranghi. I foederati vivevano quotidianamenti con genti di lingua latina e collaboravano con funzionari civili e militari romani. Alarico si considerava “un ospite”. La forza militare barbarica era diventata indispensabile per l’impero romano e Alarico alzava il prezzo delle sue “prestazioni”.

Dopo alcuni anni, Alarico richiese un risarcimento per una spedizione militare, che gli era stata affidata e che non si concretizzò. Alarico ambiva a cariche più presitgiose e remunerative nell’amministrazione romana. Era già diventato magister militum Illiricum e con il Sacco di Roma del 410 diventò magister utriusque militiae, ossia, comandante in campo di tutte le forze armate.

Alarico non voleva fondare un Regno dei Visigoti, ma voleva “fare carriera” nell’impero romano, usufruendo della vocazione militare, canale di ascesa sociale per le genti barbariche. Dovevano passare una generazione e 25 o 30 anni per la sperimentazione dei regni romano-barbarici. I regni nacquero dal ravvedimento coscenzioso delle elite imperiali (potenti romani, capi militari romani e barbarici), che l’Impero Romano d’Occidente non poteva più sopravvivere.

I Visigoti non avevano un territorio. I Visigoti erano stati autorizzati ad insediarsi nell’Illirico. La loro migrazione era iniziata un secolo prima sulla pianura del Don. Neanche quando si insediarono in Spagna nella seconda metà del V secolo, avevano una concezione territoriale del potere. Alarico era alla ricerca solo di qualche insediamento, soddisfacente per i suoi.

Carlo Magno non invase i Longobardi per pura espansione militare. Egli aveva contratto un debito con i vescovo di Roma. Il “Papa” aveva concesso a Carlo Magno e a Pipino il Breve, la funzione di patricius Romanorum, ossia “protettore” dei romani, che al tempo di Carlo Magno erano le residue regioni bizantine, Roma e il Lazio. Però tutto questo debito richiamava all’eredità di Roma. Pipino e Carlo Magno si assunsero  il “privilegio” di difendere il papa dal contrasto con i Longobardi.

1.4   L’anacronismo, compagno della ricerca storica

I concetti come “Stato” o “pubblico” sembrano un ostacolo alla comprensione del passato. Si rischia di ricadere nell’anacronismo. Anacronismo significa attribuire al passato caratteri del presente. Anacronismo significa “contro tempo” o “nel tempo sbagliato”, invece, la storia è la “scienza degli uomini nel tempo” (March Bloch).

Quindi per definire lo “Stato” si aggiungono aggettivazioni e specificazioni, ad esempio: stato romano-barbarico, stato carolingio, stato feudale, stato territoriale ecc.

La storia è costretta a servirsi di metafore, paragoni e perifrasi, piene di ambiguità. Lo storico utilizza direttamente il termine del passato, ad esempio il latino curtis e il germanico arimanno.

Per curtis intendiamo sia l’azienda agraria (edifici e terre) e sia la particolare organizzazione agraria dell’Alto Medioevo, ovvero, il sistema curtense. Era basato sull’integrazione funzionale fra la conduzione diretta e indiretta:

1) Pars dominicia: le terre coltivate dai contadini alle dirette dipendenze del padrone, di solito questi contadini erano di condizione servile;

2) Pars massaricia: le terre o mansi affidate in gestione ai contadini liberi;

L’integrazione era assicurata con versamenti in denaro o natura, che i contadini dei mansi dovevano al dominus. Inoltre i contadini dovevano le cosiddette corvées (prestazioni d’opera gratuite). Nei periodi di maggiore attività agricola, i detentori dei mansi aiutavano con il loro lavoro (non retribuito) i contadini della pars domicia. I contadini della pars massaricia erano un elemento “flessibile” per il dominus, che non avrebbe potuto procurarsi altri braccianti per i periodi di maggiore attività.

Per arimannus o exercitalis (in latino) si intende:

Altri termini controversi e fraintesi sono comitatus e contea, o vincolo vassallatico-beneficiario e feudalesimo:

  • Il vincolo vassallatico-beneficiario è il legame personale fra due guerrieri, senior e Il senior concede terre o beneficio terriero, mentre, il vassus assicura il servizio militare. Il vincolo vassallatico-beneficiario è comparso nella Gallia merovingica dell’VIII secolo e si è diffuso nell’Europa carolingia;
  • Il feudalesimo è un sistema di coordinamento politico fra potere centrale e poteri locali. Il “vero” feudalesimo è da datare ai secoli XI-XIII

  [6]

Uno dei rischi della storia è la paradossalità della storia, ovvero, il passato è compreso e narrato con le parole e i concetti del presente.

1.5   Per concludere: fatti e questioni

È sorprendente il contrasto fra il Medioevo nella fiction e la contemporanea diffidenza per la storia medievale. Il Medioevo sembra rappresentare un luogo esotico di dame, cavalieri, castelli, invasioni, santi, streghe, celti e templari. Questo Medioevo può essere uno strumento di partenza, se ben sviscerato.

Bisogna memorizzare informazioni come:

  • Alarico, re dei Visigoti, saccheggiò Roma nel 410
  • Carlo Magno fu incoronato imperatore nell’800. Il suo impero era diviso in circoscrizioni affidate a funzionari pubblici, conti, duchi e marchesi

Ma a queste informazioni dobbiamo abbinare la comprensione:

  • Alarico saccheggiò Roma nel contesto dell’incontro latino germanico e i suoi contatti precedenti al 410;
  • Per le circoscrizioni di Carlo Magno dobbiamo fare riferimento al concetto di “funzionario pubblico” e di struttura istituzionale dell’impero fondata sull’ “associazione personale” con un suggestivo richiamo alla res pubblica romana

Bisogna passare dalla mera informazione alla interpretazione.

L’oggetto Medioevo e la disciplina “storia medievale”

2.1 Che cos’è il Medioevo

Il Medioevo è un periodo della storia europea, che inizia dal 476 (data della deposizione di Romolo Augusto) e termina nel 1492 (data della scoperta dell’America di Cristoforo Colombo).

Medioevo vuol dire età (evo) di mezzo (medio). È il periodo fra l’età antica (fine impero romano d’occidente) e l’età moderna (stagione delle grandi scoperte geografiche). Questa connotazione è negativa, legata alle “barbarie” e alla decadenza.

I primi ad utilizzare la media tempestas, il tempo di mezzo, furono gli umanisti del XV secolo, cioè filologi e artisti italiani. Questi umanisti volevano isolare il periodo di mezzo fra la loro epoca (la “modernità”) e l’antichità classica, a cui si rifacevano per ispirazione di modelli linguistici-letterari, artistici e grafici. La letteratura e l’arte medievale erano rifiutate in blocco.

Gli umanisti inorridivano verso il latino scorretto delle università e delle cancellerie del Medioevo. Gli umanisti erano infastiditi dalla spigolosità della scrittura gotica, contrapponendo l’armonica scrittura carolina.

Gli artisti aborrivano l’architettura gotica e la scultura gotica, rivolgendosi all’antichità. Il Medioevo costituiva un grande contenitore di opere rifiutate. Addirittura le istituzioni e l’economia non erano presi nemmeno in considerazione.

[7]

La partizione del Medioevo si deve agli studi nel corso del XVI, XVII e XVIII secolo. La definizione di “Medioevo” si cristallizzò a fine Seicento, grazie al professore tedesco Chirstof Keller (latinizzato Cellarius). Egli pubblicò un manuale nel 1688, l’Historia medii evi. Si istituì la scansione storica di: storia antica / storia medievale / storia moderna. La scelta di Cellarius definì per sempre il Medioevo. Cellarius pubblicò tre libri: uno dell’antichità, una storia del Medioevo da Costantino fino al 1453 e storia “nuova”. Il Medioevo sembra quasi il “Rosso Malpelo” della storia. Il Medioevo come paradigma negativo ha un’esistenza a sé rispetto al Medioevo reale.

Il Medioevo è un periodo della storia europea che comincia nel 476 e termina nel 1492. Il Medioevo non fu un’epoca unitaria e non ebbe caratteri omogenei distinguibili da altri periodi. Sono esistiti molti Medioevi, più brevi e più lunghi di quello convenzionale.

 

2.2 La periodizzazione: problemi di ricerca e di studio

Periodizzare significa intrepretare. Il compito dello storico è datare.

Trattare di Alto Medioevo e Basso Medioevo significa praticare due discipline diverse. Gli storici hanno fonti diverse e metodi di analisi differenti. Addirittura molte fonti altomedievali vengono confrontate con molte della storia antica.

Ad esempio per l’Alto Medioevo si trovano atti legislativi (di papi, re o imperatori), opere scritte (ovviamente in latino o greco: cronache, storie, epistolari, opere letterarie), resti materiali (edifici, sculture, cimiteri, pitture e monete). Sono rari i documenti giuridici (donazioni, compravendite o contratti commerciali) o documenti patrimoniali (assenti dal VI al VII secolo).

Ad esempio per il Basso Medioevo disponiamo di più fonti. In questo periodo aumento la scrittura in tute le occasioni come atti notarili, atti di autorità politica, registri amministrativi, giudiziari o contabili, diari e lettere, opere di vari autori.

Chi studia l’Alto Medioevo parla di argomenti limitati, ma può ampliarli tramite le conoscenze geografiche, etnologiche, artistiche, biometriche dei resti ossi, di archeologia, di onomastica o toponomastica, di agiografia e iconografia, abbinati ai presupposti epistemologici.

Chi studia il Basso Medioevo ha disposizioni più fonti e può concentrarsi su singolo territorio o periodo o questione o fonte. Il periodo bassomedievale comprende le diverse storie degli stati europei (Inghilterra, Stati iberici, Francia, Polonia e Ordine teutonico) e italiane (infinite guerre fra 300 e 400). Questo periodo conterrà i fenomeni della signoria cittadina in Italia, con le sue innumerevoli signorie, mentre, in Europa si rafforzeranno le monarchie. Con le alterne vicende dinastiche.

2.3 Periodi diversi per storie diverse

La storia istituzionale e politica prevale nettamente. Ad esempio la storia evenemenziale o la storia-battaglia ha lasciato la priorità allo studio delle strutture sociale e politiche. Tutto ciò è stato permesso dal rinnovamento della scienza storica e rifiuto della storia come semplice narrazione di fatti ampliando gli oggetti di studio, le fonti utilizzate e i metodi di analisi, ad esempio fra questi storici c’è Marc Bloch. Questo si rispecchia nello studio di Carlo Magno, si parla ovviamente delle sue battaglie ma si analizza la struttura pubblica del suo impero.

Le strutture economiche ad esempio si prestano all’indagine storica. I fenomeni economici hanno tempi prolungati poiché prima dell’industrializzazione i cambiamenti produttivi (tecniche di allevamento, di strumenti o di metallurgia) erano molto più lenti.

Lo studio del commercio tiene conto di alcuni condizionamenti: meteorologia, orografia, corsi d’acqua, distanze e forza delle bestie.

Roma presentava un “economia di Stato”. Con il movimento centrifugo e centripeto della tassazione che poi permetteva un ritorno di infrastrutture e servizi. L’Impero Romano commerciava su lunghe distanze i prodotti agricoli (grano, olio e vino) e merci “industriali” come gli oggetti in ceramica. Grande ruolo, ovviamente, era svolto dai grandi proprietari terrieri.

Lo storico belga, Henri Pirenne morto nel 1935, riteneva che il sistema economico dell’Impero romano si concluse solo ne VII secolo con l’espansione islamica che ruppe l’unità economica del Mediterraneo. Per Pirenne, il Medioevo sarebbe cominciato soltanto nell’VIII secolo. Oggi la tesi di Pirenne è stata rifiutata. Ma come si trapassò dall’età antica a quella medievale?

Oggi si è aggiunto il periodo del Tardoantico, dal III al VI secolo, dall’imperatore Diocleziano a Giustiniano. Il periodo insiste sul concetto di continuità storica. Diocleziano fu imperatore dal 184 al 305. Giustiniano fu imperatore dal 527 al 565. L’espressione Tardoantico (Spaetantik) fu coniata dall’austriaco Alois Riegel nel 1901.n Anche la fine del Medioevo è incerta. La struttura giuridica ed economica delle campagne europee del Basso Medioevo fu ritenuta dagli osservatori settecenteschi come obsoleta. Il concetto di ancien regime fu caratterizzato per definire questo processo.

Diocleziano e Costantino non sono distanziabili nettamente dall’età medievale. Lo stesso vale per la fine.

Non manca mai un’analisi dell’economia nell’Alto Medioevo (il sistema curtense) e la crescita produttiva dei secoli centrali del Medioevo (la cosiddetta ripresa dopo il Mille). Queste parti rappresentano delle “mini-monografie” e utilizzano un linguaggio proprio di altre discipline. La storia medievale si integra alla storia economica, alla demografia e alla storia del diritto.

Importantissimi sono termini come: rotazione delle colture, conduzione diretta e indiretta, rendimenti agricoli, transumanza, trend demografico e via dicendo.

2.4 Geografia della storia medievale

Quale è il soggetto del Medioevo?

La storia Romana ad esempio ha un centro di interesse evidente: lo stato romano, la fondazione di Roma, la costituzione di un impero enorme. Ad esempio erano deboli alcuni rapporti fra la Roma antica e quella tardo imperiale.

La storia Medioevale ha un centro di trattazione diversa con aree geografiche e soggetti politici diversi, con un grado di attenzione anche diverso.

Ad esempio si spazia dalla storia politica e religiosa di tutta l’area latino-germanica, ovvero l’impero romano, occupato dalle popolazioni barbariche o germaniche fra V e VI secolo (argomenti come invasioni barbariche). Altri argomenti sono la riforma della Chiesa, le lotte per le investiture e le crociate. Un argomento più settoriale sono i Comuni, Federico Barbarossa, le Signorie cittadine e gli Stati Regionali.

Argomenti difficili sono il Meridione d’Italia nell’Alto Medioevo e l’occupazione di molti territori da parte di Giustiniano e i movimenti di popoli nell’Europa orientale. Assenti sono Portogallo, Svizzera, Sardegna e principato di Trento.

L’Islam compare con Maometto e l’espansione araba. Dopo il 750 (fine del califfato degli Omayyadi) la trattazione riguarda le incursioni saracene del X secolo e la Sicilia araba, poi segue la reconquista cristiana della penisola iberica, le crociate e la conquista turca di Costantinopoli. Serve uno sforzo di comprensione. La storia Medievale è incentrata sulla storia dell’Europa occidentale con riguardo alla penisola italiana. Il centro di interesse è l’Occidente e la “civiltà occidentale, nata dall’incontro latino-germanico. Poi che è proseguita nella costruzione degli Stati Nazione nel Medioevo e consolidatosi nella Storia Moderna, che ha esportato la sua dominazione sul globo, modelli istituzionali ed economici. Ma questa è una lettura teleologica della storia europea.

[8]

Ovviamente anche la trattazione serrata sulla penisola italiana conserva questi elementi “tendenziosi”. Le contaminazioni del Risorgimento hanno interpretato alcuni personaggi storici come anticipatori del processo unitario. Ad esempio si è stati attenti alle vicende di Arduino d’Ivrea, primo “Re d’Italia”, la guerra della Lega Lombarda contro Federico Barbarossa, la rivolta del Vespro contro Carlo I d’Angiò. Episodi facili ad essere interpretati come tendenziosi.

La guerra fra Federico Barbarossa e i Comuni non rappresenta la libertà italiana o padana. È molto più importante la definizione giuridica della concezione pubblica imperiale. Bisogna scacciare questa visione e luoghi comuni.

L’imperatore da tempo non aveva un controllo diretto del regno italico, almeno da due secoli (Federico barbarossa 1154-1189). Il potere pubblico nei secoli X-XI era esercitato da signori locali non più “funzionari pubblici”. Barbarossa richiedeva un palazzo imperiale in città, il giuramento di fedeltà ai suoi vicari da parte dei consoli comunali. Queste richieste erano sentite come inaccettabili. Barbarossa cercò di fare quello che riuscì in Francia: centralizzare il potere pubblico, costruendo un regno più solido.

Altro evento esempio è la rivolta del Vespro (Palermo 1282) fu originata da un gruppo di francesi che importunarono una donna siciliana. Ma non era vero, dato che un cronista successivamente riportò questa versione.

2.5 La disciplina: problemi di focalizzazione

Il Medioevo risulta un contenitore di diversi periodi storici e un contenitore di diverse discipline, ognuna con suoi problemi tecnici, metodi e fonti. Le nuove acquisizioni nelle discipline umanistiche, le nuove interpretazioni però non hanno scacciato quelle vecchie. La storia fa fatica a sbarazzarsi di ex-fatti, questioni e interpretazioni.

Ad esempio la storia del Regno Italico nel periodo di disgregazione dell’impero carolingio (887-962) fu caratterizzata da instabilità dato che la carica regia era contesa fra due o tre famiglie di grandi signori territoriali. Le vicende sono particolareggiate rispetto ad altri regni postcarolingi, Franchi occidentali e granchi orientali.

È fondamentale il concetto di “allodialità del potere” e l’incastellamento. L’incastellamento è il fenomeno della diffusione di castelli e altre fortificazioni fra il X e il XII secolo. I castelli a volte erano costruiti da signori fuori da ogni collegamento con l’autorità pubblica, diventando base di poteri locali autonomi. In alcune aree la nascita dei castelli, nuovi centri di popolamento e sfruttamento della popolazione, modificò l’organizzazione del territorio.

Il Comune rappresenta una straordinaria unicità e importanza dell’esperienza politica, sociale, culturale vissuta in numerose città del centro e del Nord della penisola. Conviene soffermarsi su Milano e Firenze:

  • Milano è importante per la questione dell’origine del comune e della composizione sociale delle sue elitè dirigenti nel XI secolo;
  • Firenze è importante per il Comune di popolo e il fenomeno delle leggi antimagnatizie nel XIII secolo

 [9]

Milano e Firenze sono due modelli e una pietra di paragone per gli studiosi della civiltà comunale italiana per ragioni storiche e storiografiche, per la disponibilità di fonti. Molto importante era la questione del contado. Il contado era il territorio su cui un Comune estendeva la sua autorità. La parola deriva da comitatus, “la circoscrizione del conte, conte”. Il cambiamento è significativo. I Comuni italiani intendevano controllare i territori che nell’età carolingia dipendevano dal conte, ovvero, il funzionario imperiale che generalmente risiedeva in città.

2.6 L’idolo delle origini

March Bloch ha definito l’“idolo delle origini” l’ossessione che porta a ricercare a tutti i costi le origini dei fenomeni storici. Un fenomeno del passato va analizzato nel tempo in cui si è manifestato. Bloch si opponeva all’identificare le origini con le cause. Le origini sono un “cominciamento che spiega” ma è addirittura peggio che “è sufficiente a spiegare”. Ecco il pericolo delle origini. Non si devono accettare spiegazioni banali. In storia non esistono leggi necessarie. La storia non è infallibile giudice del presento (historia magistra vitae): il passato non ricava infallibili istruzioni del presente. Questa visione è meccanicistica e rassicurante. Non è possibile trovare una causa onnicomprensiva. Il passato è complesso, ambiguo e imprevedibile, pertanto richiede un’indagine complicata. Bisogna liberarsi dell’“idolo delle origini” e riflettere di più sul fenomeno storico. Prendiamo il caso della Crociata:

<<La prima crociata fu un pellegrinaggio armato di guerrieri cristiani, in prevalenza franchi e normanni, al sepolcro di Gesù Cristo. Essa si tenne nel 1096-99 e portò alla conquista di Gerusalemme e di altri territori islamici nel Vicino Oriente>>

I contemporanei però non usarono la parola “Crociata”. La Crociata dei nobili fu preceduta dalla cosiddetta Crociata dei poveri[10]. Quindi possiamo anche paragonare la 1° Crociata e alla idea di crociata sorta dalla 1° Crociata. La visione del buon cristiano era quella di servire Dio e andare in paradiso. Soltanto il papa, capo della Chiesa cattolica universale, aveva il potere per indire una crociata contro chi fosse individuato come nemico della fede. I casi sono disparati: il musulmano, il cristiano ortodosso, l’eretico. Chiunque si poneva contro al pontefice.

Quindi all’esame dobbiamo dire immediatamente: chi, dove quando, che cosa e perché! Poi sganciare ogni argomento da quello trattato.

2.7 Il Medioevo come paradigma dell’antimoderno

La parola Medioevo e l’aggettivo medievale conservano un’accezione negativa. Medievale significherebbe oscuro, arretrato, irrazionale. Antico sembra suscitare ammirazione, invece, il medievale è il passato negativo che rispunta contro il moderno. Medievale è il non moderno? La storia medievale è un collasso culturale, proprio come la pensava Vico? È un’epoca di barbarie? Si grida al Medioevo per bollare comportamenti che sarebbero antiquati e soprattutto da esecrare. Però addirittura facciamo ricorso al Medioevo per indicare l’eroismo, la lealtà, l’amicizia, la devozione alla donna amata, i valori della cavalleria. Siamo davvero lontani dal vero Medioevo. È solo un vagheggiarlo. È importante non confondere il Medioevo paradigma dell’antimoderno e il Medioevo immaginario con il vero e unico Medioevo “storico”.

2.8 Il feudalesimo, mostro inafferabile?

Con feudale molti intendono un giudizio negativo. Feudale è una cosca mafiosa. Addirittura vi sono partiti vassalli di altri. Il Feudalesimo ricopre il ruolo di sinonimo di anti-Stato, di esercizio abusivo. Feudale e medievale vengono usati come paradigmi dell’antimoderno.

Altra immagine sbagliatissima è la piramide feudale. Secondo questo modello Carlo Magno divise il territorio in feudi, assegnandoli ai vassalli che a loro volta assegnavano a valvassori. Poi i valvassori con i valvassini. È completamente sbagliata. Questa gerarchia avrebbe addirittura stabilizzato il sistema. Valvassini addirittura compare come termine posteriore. Tabacco parla di feudalesimo come una “sorta di monstruum, divenuto concettualmente inafferrabile”.

Secondo la visione seicentesca il feudalesimo era una frammentazione del potere pubblico. Si criticava il censo (tributo in denaro o in natura) e le prestazioni d’opera gratuite (le corvèes). Questi gravose limitazioni di libertà erano considerati “diritti feudali” e furono eliminati dai riformatori illuministi del XVIII secolo e dalla Rivoluzione Francese. La feudalità fu abolita l’11 agosto 1789. Feudale era ritenuto opposto alla concezione romanistica della sovranità del diritto pubblico.

Marx addirittura ritenne feudale questo tipo di sfruttamento del proprio servo. Marx periodizzava la storia umana in base all’organizzazione economica e al modo di produzione (dal primitivo a quello asiatico, dall’antico fondato sulla schiavitù a quello feudale, fino all’oppressione proletaria contro i borghesi.

Oggi gli storici hanno abbandonato il termine feudalesimo. Oggi si distingue fra:

Vincolo vassallatico-beneficiario Signoria fondiaria Feudalesimo
Era il legame personale fra due guerrieri, un senior e un vassallo, un signore e un giovane. Era comparso nel VIII secolo Era il potere economico e giuridico esercitato da un proprietario terriero sui contadini del proprio fondo. Era comparsa dopo la disgregazione dell’impero carolingio (X-XI secolo) Coordinamento organico di diversi poteri territoriali durante il Basso Medioevo

Carlo Magno concedeva benefici o terre ai suoi vassalli. Quindi non concedeva potere ma ricchezza.

Carlo Magno sceglieva i suoi funzionari pubblici fra solo alcuni dei suoi vassalli, poiché questi aveva capacità militari e dovevano essergli fedeli.

Non tutti i vassalli erano funzionari pubblici. Alcuni vassalli non erano legati a Carlo Magno. Esistevano re vassallatiche che partivano da un vassallo.

Il comitatus o contea non è assimilabile al beneficio. Il beneficio non ha alcun contenuto politico. Il beneficio è il surrogato di uno stipendio, una fonte di reddito che assicurava maggiore ricchezza al vassallo per tutta la durata della sua vita.

Il beneficio era revocabile, invece, la proprietà non era revocabile.

Fra il X e il XI l’ordinamento pubblico andò in crisi, nonostante la rete vassallatica-beneficiaria. Il potere pubblico assunse tratti signorili e si confuse con il potere esercitato dal dominus sulla propria terra e sui propri contadini. Qualche signore fondiario si impadronì spontaneamente dei poteri pubblici. L’epoca dell’ “anarchia” o “ordinamento signorile” coincide con un assimilazione del potere pubblico con quello fondiario.

Nel Basso Medioevo, ossia, dal XI secolo in poi, il vincolo vassallatico fu finalizzato ad altri ruoli. Ora collegava due persone e due poteri. Il feudo o beneficio era concesso al vassallo o feudatario. La cerimonia è la stessa dell’Alto Medioevo, però il terreno è governato dal feudatario.

Nel regno di Sicilia del XIII secolo il feudatario possedeva un territorio con la sua giurisdizione (diritto di giustizia, beni demaniali come laghi, corsi d’acqua, foreste; teloneo, tassa sul macinato, monopoli di vendita di vino). Il vassallo o feudatario era riconosciuto del possesso delle terre e riconosciuto come signore feudale. Era un’assegnazione perpetua, trasmissibile agli eredi. Solo in caso di mancata fedeltà o impegno a difenderlo, o mancato servizio militare, il feudatario perdeva il suo feudo. Il Liber Augustalis definiva il legame personale fra feudatario e il suo senior. Questo era regolato dalle norme del diritto feudale. Ora i censi e le corvees erano di diritto signorile. Un feudatario non poteva sposarsi liberamente o dividere il feudo.

Il feudatario poteva infeudare parte del suo feudo. Poteva concederlo a un valvassore (vassallo di un vassallo) o suffeudatario (detentore di un sotto-feudo). Questi feudi erano semplici proprietà terriere. Il vassallo (o feudatario) non esercitava diritti giurisdizionali o obblighi militari. Il valvassore versava solo un canone di affitto in denaro o natura. Questi feudi erano detti “rustici” e spesso rimanevano proprietà di chi li concedeva ma il feudatario (o vassallo) non riusciva ad entrarne in possesso.

I diritti signorili, il feudo rustico, i valvassori “feudali”, dimostrano come nel feudo erano presenti pluralità di situazioni.

Nel feudo vivevano contadini, nobili di rango inferiore, mercanti, imprenditori, artigiani. I vassalli del feudatario erano tributari al feudatario e rispondevano in questioni di giustizia al feudatario. I ecclesiastici rispondevano al tribunale del vescovo o del papa. Chi era condannato dal tribunale feudale poteva ricorrere al tribunale del re.

Oltre ai poteri del feudatario era possibile che il re esigesse alcune tasse oppure la stessa Chiesa esigeva la decima (decima parte del raccolto. Ma esistevano anche aree amministrate dalla comunità in piena autonomia oppure le città amministrati da funzionari del re. Il sistema era razionalizzato però a volte non funzionava per rivalità.

Le Fonti e i metodi

3.1 Le fonti

Dalle fonti sgorga la storia come acqua fresca e limpida? Le fonti sono i resti del passato, materiali e immateriali, scritti e non scritti, che lasciano una memoria di sé. Le fonti sono anche leggi, lettere, narrazioni, poesie, monete, gioielli, tombe, cocci ed ecc. Queste fonti sono da analizzare con sofisticati metodi di indagine, che si perfezionano nel corso del tempo.

La storia e la storiografia però non vanno confuse. La storia corrisponde alle res gestae (ciò che è stato fatto, i fatti) e la storiografia corrisponde alla historia rerum gestarum(la storia, il racconto delle cose che sono state fatte, dei fatti).

Va fatta un ulteriore distinzione: fra fonti scritte e non scritte, fra fonti intenzionali e non intenzionali o preterintenzionali, fra fonti narrative e documentarie. Fare lo storico significa incontrare la mediazione incompleta e fallace dei resti del passato, che vengono spesso deformati, ad esempio interventi urbanistici, resti archeologici e architettonici.

La “storia-disciplina”, quella insegnati nei manuali, è un pratico sommario, ma è diversa dalla pratica della storiografia.

3.2 Un monaco e l’invasione dei longobardi (la fonte narrativa)

I Longobardi hanno invaso la penisola italiana nel 568/9. La storia di questa invasione ha avuto un grande impatto sull’Italia. La fonte che spicca su tutte è l’Historia Langobardorum, scritta 200 anni dopo da un monaco longobardo, Paolo di Warnefrid, detto Paolo Diacono.

Il passo preso in esame è la morte di re Alboino, riguardante la migrazione in Italia.

L’occupazione dell’Italia fu caratterizzata da assassini e depredazioni. Le città furono distrutte e i romani sottomessi. Ci furono 10 anni di “anarchia” ovvero senza un re (574-584). Era il periodo dell’interregno. Nel 584 i duchi longobardi elessero re Autari, che ottenne un patrimonio di bene previa concessione di metà degli averi dei duchi.

Ma alcuni passi sono ancora discusi. Dopo la morte di re Clefi, molti nobili romani furono uccisi, soprattutto chi voleva impadronirsi dei loro beni. I restanti furono resi tributari. Durante il periodo dell’interregno ci sarebbe stato una fase di spoliazione e di distruzione anche delle Chiese.

In questi passi si fa riferimento ai Longobardi come “hospites” (“ospiti”). È il celebre istituto della tarda antichità: l’hospitalitas. Ai nuclei di barbari all’interno dei confini romani veniva concesso un 1/3 delle terre o meglio un 1/3 dei proventi delle terre. Probabilmente fu un tributo estorto con la violenza, soprattutto sui rimanenti Longobardi. Il termine hospites richiede la conoscenza di un latino tardo o latino medio per comprenderne a pieno il significato.

Paolo Diacono si riferisce ai Romani come “nobili”. Questo termine rinvia ai nobili del suo tempo, i guerrieri longobardi o franchi che controllavano l’organizzazione pubblica e possedevano grandi quantità di terre e contadini. Però riferita ai romani significava la classe senatoria italo-romana caratterizzata da un buon livello culturale e al vertice della società, economia ed istituzioni. Il ceto senatorio fu decimato o fuggì o fu privato del proprio ruolo politico.

Ogni parola è prisma dell’invisibile. Si tratta di analizzare la lingua, la tradizione letteraria, l’origine dell’informazione e l’attendibilità.

Passiamo all’autore, al suo modo di scrivere. Perché scrisse quest’opera? Quale è il suo quadro mentale di riferimento?

In molte cronache e storie nel Medioevo si ritrova la maggior parte delle notizie biografiche. Paolo Diacono ci racconta la storia della sua famiglia e ci fornisce informazioni “intenzionali”, quello che un monaco della sua elevata formazione culturale ci ha voluto trasmettere. Ma dalle sue parole sono ricavabili informazioni che non ci ha voluto dare, ossia, informazioni “preintenzionali”.

Paolo non racconta di un’origine mitica dei Longobardi. Le cronache dei Franchi si nobilitavano come discendenti dei troiani, di Enea e di Roma. Non era diffusa la consuetudine di narrare la storia della propria famiglia. Paolo era antenato di Leupchis, venuto in Italia insieme con Alboino.

Paolo Diacono rimaneva un “longobardo”. Questa popolazione non cercava una nobilitazione ma era estranea al mondo romano e rimarcava l’origine del Nord. L’appartenenza etnica, al tempo di Paolo, era decisiva nel regno di Pavia. Ogni longobardo si sentiva parte di una stirpe, di cui ricordava e raccontava la storia.

Elemento scomparso dell’identità longobarda era l’arianesimo. L’arianesimo era una dottrina cristologica condannata come eresia dal Concilio di Nicea del 325. Questa dottrina era perseguitata dall’impero romano e dai vescovi cattolici, ma si era diffusa fra i “barbari-germanici” prima della migrazione verso occidente. L’arianesimo per i barbari costituì un sentito elemento di identità.

Questa fonte è intenzionale perché è una cronaca. Questa fonte è preintenzionale perché è un resto archeologico.

Paolo Diacono raccolse tradizioni orali della storia dei Longobardi. Egli racconta anche la saga delle origini dei longobardi, ma ne esclude l’attendibilità, considerandola un mito. Quest’origine è esaminata da ricerche etnografiche.

Al tempo dell’invasione, la popolazione italica sarebbe stata molto popolosa per Paolo Diacono. Questa testimonianza è stata influenzata dagli scritti di papa Gregorio Magno, che avversava i Longobardi dal 590 al 604. I dati demografici smentiscono questa popolosità che era in calo.

Il sistema dell’hospitalitas proveniva da un racconto di un chierico del 612, Secondo di Non o di Trento. I chierici erano coloro che avevano un ruolo nell’organizzazione amministrativa e religiosa di una chiesa. Erano sia sacerdoti, sia chi si era sottoposto alla tonsura, sia chi riceva gli ordini sacri. C’erano gli ordini minori (portiere, ostiario, lettore) e gli ordini maggiori (diaconi, sacerdoti, vescovi).

Il quadro idilliaco dei Longobardi proveniva proprio da tale Secondo. Paolo era nostalgico evocava la giustizia dei regni longobardi, in quanto viveva proprio negli anni della decaduta del dominio longobardo.

Paolo Diacono era di Cividale in Friuli. Era nato fra il 720/730. Apparteneva a una nobile famiglia longobarda, che aveva vissuto alla corte regia di Pavia, prima dei conflitti fra Franchi e Longobardi. Era stato monaco benedettino a Montecassino e assistette alla fine del regno longobardo nel 774. La sua famiglia si rovinò dato che il fratello morì a una ribellione antifranca nel 776. Egli giudicava negativamente l’arianesimo dei primi longobardi, gli eccidi dei ramni e i saccheggi delle chiese. Però era fiero della storia del suo popolo e voleva trasmetterla ai posteri.

Storia qui significa inquadrare il contesto biografico dell’autore, le sue rappresentazioni dei Longobardi, i suoi silenzi e i confronti con altre opere.

Alessandro Manzoni scrisse il suo saggio storico sui longobardi nel 1822, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. I Longobardi non si fusero affatto con gli oppressi romani. Coloro che appoggiavano il Risorgimento vedevano nei romani la nazione unita e indipendente. Manzoni voleva esortare il “volgo disperso che nome non ha”, ovvero gli oppressi romani sotto i Longobardi e poi i Franchi. Il richiamo è di ribellarsi agli austro-ungarici. Ma Manzoni compiva un’identificazione che oggi è sbagliata. Gli italiani dell’epoca dell’Adelchi di Manzoni erano diversi dagli “italiani” dell’Adelchi reale. Oggi l’analisi delle fonti narrativa è diventata raffinata.

I Longobardi trasformarono la loro violenta dominazione tribale e militare, avvicinandosi alla residua trazione romana. Avevano dato vita ad una monarchia cattolica abbastanza stabile e dato vita a un territorio territoriale dotato di un essenziale apparato di uffici pubblici. L’invasione dei Longobardi, però, fu violenta e i ceti dirigenti quasi del tutto sterminato o privati dei propri ruoli.

La storiografia si è più affinata rispetto alla storiografia romantica. Ad esempio la restauratio regni del 584 apparve essere una necessità di organizzazione territoriale. Il re veniva appellato con il nome “Flavio”, che designava una delle più importanti gens romane, quella di Vespasiano.  Erano già stati soprannominati così sia Alarico che gli Ostrogoti. Quindi il “volgo disperso” aveva una funzione di integrazione.

I nostri strumenti per analizzare una fonte sono le discipline culturali: storia del diritto, letteratura latina, analisi del testo, letteratura, filosofia, filologia. La filologia ricostruisce, attraverso la critica del testo, un testo molto fedele all’originale. Quindi si analizza la costituzione materiale dello scritto (grafia, fascicoli, ecc.) e la storia “esterna” (il copista, la storia del luogo in cui ha scritto). Alla filologia si aggiunge la paleografia, la codicologia, la bibliografia.

La “Historia” è stata pubblicata da Ludwig Bethmann e Georg Waitz nel 1878.

3.3 Un coccio e la fine dell’età antica (la fonte materiale)

Prendiamo in esame grande piatto tondo di ceramica del diametro di 25,5 cm, oggetto comune, usato per mangiare e prodotto nel VII secolo da officine africane vicino alla Tunisia. Il piatto non aveva rivestimento come le maioliche. Era fatto di impasto di argilla e acqua, poi cotto. È la classica ceramica “sigillata”, ottenuta con matrici e punzoni. La ceramica da mensa africana era un grande successo commerciale, diffondendosi dal I al VII secolo d.C.

A seconda dell’impasto e delle decorazioni possiamo dividere la produzione per periodi. Questi piatti furono ritrovati nella Crypta Balbi, vicina al teatro di Lucio Cornelio Balbo, fedelissimo di Augusto. Nella Crypta Balbi gli spettatori potevano passeggiare al coperto in caso di pioggia prima di entrare a teatro. C’era un giardino quadrato sovrastante. Poi c’era un’esedra che completava il teatro. Questi piatti sono stati trovati nell’area dell’esedra.

Il sito si trova vicino alla via delle Botteghe Oscure. Se Mussolini avesse individuato l’area, le superfetazioni medievali e moderne sarebbero state portate alla luce. Sicuramente avremmo assistito a uno spettacolo simile ai fori Imperiali. Il cumolo di origine medievale sarebbe stato sgomberato. Gli archeologi dell’epoca volevano recuperare solo le strutture romane. Furono rimossi i monumenti di età medievale (merli, guglie, pennacchi e gargoulles).

Oggi gli storici non concedono alcun privilegio a determinate epoche storiche ma raccolgono informazioni ogni volta che scavano. Anche i monumenti romani ci sono pervenuti con le trasformazioni, mutilazioni e distruzioni. Studiare le trasformazioni incrementa la nostra conoscenza su tutte le epoche storiche.

Queste sono le fasi della vita dell’esedra:

1 Impianto originale di Lucio Balbo, 13 a.C.
2 Ristrutturazione del II secolo d.C., furono costruite delle latrine
3 Abbandono e distruzione in età tardo antica (V-VI secolo)
4 Luogo di sepoltura (VI secolo)
5 Nuovo abbandono fra VII e VIII secolo
6 Costruzione di una calcara, impianto di produzione di calce, VIII secolo agli inizi IX
7 Distruzione del monumento antico per causa terremoto nel IX
8 Costruzione di un balneum (bagno) annesso al Monastero, intorno al 1000’
9 Giardino del Conservatorio di Santa Caterina della Rosa in età rinascimentale e moderna
10 Abbandono del Conservatorio intorno il 1937. Possibile costruzione dell’Istituto Nazionale Cambi con l’Estero. 1961 sondaggi archeologici

L’epoca medievale riguarda ben sei fasi. L’abbandono, il luogo di sepoltura, l’impianto di calce, la discarica ci fanno pensare a una terribile decadenza economica. Roma nel corso della metà del VI secolo arrivava a circa 45 000-60 000 persone. L’Urbe, simbolo di un impero, era diventato un cumolo di rovine. Ma il Medioevo è un’epoca buia per davvero? Questo numero, però non è così esiguo. Servivano delle strutture e forme di organizzazioni ancora “cittadine”. Il calo demografico e il degrado delle strutture non avvenne in poco tempo. Addirittura il teatro Balbo era riportato dalla forma urbis di Severo. Però negli anni 60 il sito ancora non era stato individuato.

Il problema della data è risolto dalla stratigrafia. Gli eventi naturali e umani innalzano il livello del suolo e del pavimento. Lo strato che sta sopra è posteriore allo strato che sta sotto. Quindi nel sottoterra vi sono numerosi reperti (iscrizioni, graffiti, monete, oggetti di ceramica). Una moneta appartiene all’era in cui è stata emessa, i marmi possono essere stati manomessi. Per datare la ceramica si rifà al bollo, alla marcatura e al simbolo della produzione.

È difficile distruggere la ceramica, che non va in putrefazione facilmente come legno e il tessuto. Marmi e metalli erano riciclabili. La ceramica non lo era. I cocci andavano gettati via. I cocci fanno la gioia degli studiosi. È un “reperto guida” per le altre rilevazioni. La sigillata in questione risaliva dopo il 650.

Gli archeologi procedono con cautela e segnalano tutti i passaggi. Lo scavo viene condotto come una “scena del crimine”. Ogni traccia è ben curata. L’archeologo individua l’unità stratigrafica grazie al colore e alla consistenza del terreno. L’unità stratigrafica è l’effetto di un evento che ha modificato l’aspetto del sito. L’unità stratigrafica è contraddistinta da un numero e dal rilievo archeologico. Può essere che il terreno abbia ceduto oppure che interventi umani hanno cambiato l’ordine. Ogni reperto è setacciato e raccolto in casse apposite.

Questa è la sequenza stratigrafica dell’esedra della Crypta Balbi elaborata da Lucia Saguì. Sono messi in evidenza gli strati di terreno dal V al X secolo.

Vengono indicati anche i blocchi di tufo e travertino dell’età augustea. Vengono indicati anche i pilastri in laterizio del II secolo, quando nell’esedra fu costruita la latrina.

Queste strutture si ritrovavano coperte da cinque strati (2° metà del VI secolo, 2° metà del VII secolo. 1° metà dell’VIII, fine del VIII secolo, IX-X secolo).

Gli archeologi hanno proceduto dall’alto verso il basso, quindi al ritroso nella successione storica. Solo nel 1993 sono arrivati alla seconda metà del VII secolo. C’erano 100 000 frammenti (anfore, piatti, lucerne ecc.), 460 monete, osso, avorio, pietre preziose, 5000 reperti organici. Ogni frammento è stato misurato, fotografato e riprodotti in disegno.

Si è stimato che il 47 % era destinato al trasporto di liquidi e conservazione di alimenti, il 3% da stoviglie. I 442 orli trovati corrispondevano a un minimo di 229 piatti (calcolando capacità dei contenitori). La presenza della sigillata rende difficile la datazione dell’VII secolo (abbandono del sito). Per il Medioevo dobbiamo guardare alla successiva produzione di ceramica per cercare nuovi “reperti guida”. La stratigrafia è contestuale allo scavo. Se un determinato tipo di ceramica è stato scoperto in uno scavo e datata nella prova stratigrafica potrà essere utile per un altro studioso.

II Secolo V Secolo X secolo

Il sito era diventato un “butto”, una discarica o immondezzaio, vicino al sito di lancio. Il lancio proveniva dal monastero attiguo, San Lorenzo in Pallacinis oggi scomparso. Il butto era avvenuto a seguito di un’inondazione del Tevere ed era sorta la necessità di sgombrare materiale accumulato. Quindi si passa dalla classificazione dei materiali alla ricostruzione storica. Questa massa di reperti classificati ci permette di conoscere l’economia del VII secolo.

Roma ancora nel VII secolo era inserita in una rete commerciale. In questo sito sono stati ritrovati: unguentari dalla Palestina, lucerne dalla Sicilia e anfore dall’Egitto o Tunisia. C’è anche un tipo di anfora dell’isola di Samo che probabilmente conteneva vino celebre e costoso. L’impressione di decadenza si attenua, se si commerciava vino di Samo, piatti africani e olio. Il coccio è un informatore preziosissimo poiché è una fonte materiale preterintenzionale.

Sono necessarie molte energie finanziari e scientifiche per analizzare tutto. Uno strumento utilizzato per i reperti organici è l’esame del Carbonio 14, sostanza radioattiva presente nei vegetali o animali (è possibile datare in base a un’approssimazione di uno o due secoli). Questo tipo di lavoro è costituito da un’équipe di studiosi.

Il drastico calo demografico e urbanistico probabilmente non corrispondeva alla distruzione della struttura economica. Questa era la tesi di Pirenne, che citando monete d’oro e papiri, credeva di dimostrare che il commercio internazionale nel Mediterraneo rimase vivo fino a tutto il VII secolo. La vera cesura storica sarebbe stata l’espansione islamica nel Mediterraneo, avvenuta nell’VII secolo. Tutto ciò avrebbe portato alla rottura dei commerci internazionali, la crisi dell’urbanizzazione, la ruralizzazione. Insomma l’inizio del Medioevo. Il suo libro, Maometto e Carlomagno, sosteneva che la predicazione di Maometto (1° metà del VII secolo) fu all’origine del mondo carolingio, dunque della nascita dell’Europa (VIII-IX secolo).

La tesi di Pirenne non è più accettata sia per il ruolo che attribuì all’Islam e sia per il quadro negativo del commercio e dell’urbanesimo in età carolingia. Resta aperta la questione della periodizzazione. Egli era alla ricerca di individuare un momento di collasso della struttura economica e sociale. Questi ritrovamenti sembrano dare ragione a Pirenne. I commerci floridi si erano interrotti a partire dal VII, epoca dell’espansione islamica.

Però la ricerca antropologica ricava conclusioni generali da reperti di piccoli scavi e di piccole porzioni. Probabilmente il commercio internazionale escludeva alcune aree e non Roma. Il problema è passare dal singolo reperto alla generalità storica.

La distanza fra l’archeologia è evidente nei confronti della ricerca storica. È necessario integrare l’archeologia e la storia per avere uno studio accurato dell’Alto Medioevo.

3.4 Parma nel X secolo (la fonte documentaria: i diplomi)

Nel 962 Ottone I di Sassonia, re di Germania, scese in Italia la seconda volta e fu incoronato imperatore dal Papa Giovanni XII.

Prendiamo in esame un diploma, emanato per quell’occasione dalla sua cancelleria. La Cancelleria era l’“ufficio”, che si occupava della produzione di documenti di imperatori, papi e di qualsiasi titolare di autorità pubblica.

L’atto preso in questione è un diploma ufficiale emesso dall’imperatore a Lucca il 13 marzo 962. È una pergamena dotata di grande sigillo, protetto da una custodia e assicurato al lembo inferiore del documento mediante strisce di pergamena.

Questi atti istituivano diritti e riconoscevano prerogative, in questo caso la diocesi di Parma. Per studiare questa fonte dobbiamo indagare il materiale scrittorio, il sigillo, la grafia, le sottoscrizioni, le formule del testo, la sua funzione.

[11] [12]

Innanzitutto è una “littarae patentes”, una lettera da esibire a terzi. Questa è già diversa dalla “litterae clause”, indirizzate a un solo destinatario. Questo diploma di Ottone autorizzava il vescovo di Parma e i suoi successori di governare la città tamquam nostri comes palatii, come se fosse un conte del palazzo imperiale. I conti durante il periodo carolingio erano i funzionari pubblici dell’impero.

Venivano concessi:

  • Il potere regio e la pubblica funzione
  • La potestà di deliberare, giudicare e ordinare
  • La licenza di ordinare, decidere e deliberare

Insomma il diploma richiama il diritto romano (regia potestas e pubblica functio). Vengono specificate le funzioni legislativa (deliberare), giudiziaria (giudicare) ed esecutiva (deliberare).

Vengono concesse le tradizionali attribuzioni di un conte carolingio. Il potere del conte in origine derivava dalla potenza militare e dalla capacità di costringere gli altri uomini ad obbedire. La capacità di obbedienza è la “districtio”. La discritio non è territoriale ma è di distringere, ossia, costringere. Questa natura relazionale del potere è detta banum, che in lingua germanica significa comando.

Quali sono questi poteri? Il potere è esercitato sul “demanio” (mura, via regie, corsi d’acqua), ovvero le cose attinenti alla res publica. Questo tipo di potere è concesso al vescovo. Il vescovo si occupava delle riparazioni delle mura e delle strade pubbliche. Imponeva dazi sui corsi d’acqua e le strade. Riscuoteva il teloneo, tassa indiretta sui beni di passaggio. Esercitava il districtum (arrestare, multare, eseguire sentenze). La sentenza era emessa nel suo placito. Con placito prima si intendeva l’udienza giudiziaria presieduta dal re o da un suo rappresentante.

Su chi e dove è esercitato il potere? Sono citati i chierici (che facevano parte della giurisdizione separata del vescovo), gli abitanti della città e del circondario. Rientrano anche i beni posseduti da ogni famiglia e le loro famiglie stesse.

Le res et familiae sono i beni immobili, i servi personali, la famiglia. Insomma il Vescovo aveva il controllo del diritto civile o penale dovunque essi si trovino, nel comitato o nel comitato vicino. Quindi la giurisdizione è legata alla stessa persona del Vescovo. Questo prelievo avveniva con l’ospitalità forzosa, la consegna di derrata a uomini e cavalli del vescovo, la prestazione d’opera.

Facciamo attenzione ai verbi “dispositivi”. Sono espressi in prima persona plurale (plurale maistatis), riferendosi ovviamente all’imperatore. Quindi tutti i poteri trasmessi in realtà sarebbero quelli del re. Verbi tipici sono concedere, largiri (permettere), trasfundere (trasferire), delegare. I termini sono a volte opposti, ad esempio trasferire e delegare, oggi sono diversi: la delega prevede anche la revoca, il trasferimento no. Quindi il potere concesso è dato dal semplice “accumulo” dei termini.

Il Vescovo di Parma (e i suoi successori) hanno lo ius (diritto) e il dominium (dominio e sovranità) autonomi. il Vescovo diventa un “signore” indipendente.

Il documento è un’alienazione o una donazione. Il potere è donato come se fosse una proprietà privata. Il Vescovo non diventa funzionario dell’impero, non è nominato conte anche come se fosse conte, e neppure diventa feudatario. Non c’è richiamato al rapporto vassallatico-beneficiario.

Il Vescovo non amministra per conto di Ottone. Quindi non è un conte. Il Vescovo non è feudatario poiché non presta omaggio vassallatico.

Il dominium non è un comitatus e non è un feudo. È errata la definizione di Vescovi-Conti, che sarebbero funzionari addirittura infeudati delle contee.

Il Vescovo di Parma è un dominus, ovvero un signore-padrone esercitante il suo potere su Parma e sui cittadini e i loro beni. Questo potere è definito “signoria locale” o dominatus loci. Con dominatus loci intendiamo i poteri signorili o poteri locali che comprendono le varie forme di “signoria territoriale” del X e XI secolo (periodo dell’ordinamento signorile). Nella “signoria territoriale” del X e XI rientrano varie categorie:

  • dignitari ecclesiastici e abati;
  • conti o funzionari pubblici di antica derivazione carolingia che aveva patrimonializzato la carica;
  • le spinte dal basso provenienti alla signoria fondiaria e dal processo di incastellamento che aveva formato le signorie di banno e di castello;

Schema “allodialità del potere”, secondo Giovanni Tabacco

Il potere è localizzato, nelle mura, nei corsi d’acqua e nella persona stessa che esercita tale potere.

Il dominatus loci è una visione del potere lontana da Carlo Magno (VIII-IX secolo) e dall’epoca feudale (XI-XIII). La concezione “signorile” del potere è stata definita da Giovani Tabacco l’allodialità del potere. Il potere pubblico è trattato come un allodio. L’allodio, in lingua germanica indicava la proprietas, la proprietà piena, che è alienabile per donazione o trasmissione ereditaria.

Tutto questo processo è dovuto dalla dissoluzione dell’ordinamento pubblico in seguito alla crisi dell’impero carolingio. Ottone cercava di ristabilire la sacralità dell’Impero per connettere una serie di poteri autonomi. questi poteri erano conti, duchi e marchesi che non erano più funzionari pubblici ma erano divenuto nel corso del tempo signori locali (domini loci = padroni di terre, uomini e diritti). Probabilmente il Vescovo Uberto già esercitava questa carica e Ottone I la legittimava. Probabilmente Uberto era contestato da altri signori e Ottone ha concesso la proprietas, ossia il ius (diritto) e il dominium (potere localizzato). L’imperatore conservava il diritto di protezione delle chiese e quindi su Parma indirettamente. Ottone si procurava un alleato importante, come il Vescovo Uberto.

Tabacco indica il processo come una concessione iure proprietario (a titolo di proprietà). La cancelleria seguiva procedure rigide (ripartizione del testo e le formule) e distinzione dei compiti (chi componeva e chi dettava e chi ricopiava e chi apponeva il sigillo).

Il testo presenta:

  • Invocatio: invocazione
  • Intitulatio: intitolazione del re
  • Arenga: la premesse al testo e le motivazioni etico-politiche

Ottone aveva il fine di “esaltare” le chiese, insomma di proteggerle. Così facendo si procurava un alleato prezioso.

Altre parti sono:

  • Narratio: narrazione della concessione e i motivi per cui è concessa
  • Dispositio: chiarificazione delle disposizioni concesse

La diplomatica si occupa dello studio dei diplomi: indagine sulle formule e gli scarti dell’uso fatti da una determinata cancelleria. La diplomatica è sorta proprio per certificare l’autenticità e le numerose falsificazioni. Il monaco benedettino francese, Jean Mabillon (1681), scirsse il primo trattato De re diplomatica. Altra scienza chiamata in causa è la sigillografia. Molto importante anche l’archivistica.

La filologia testuale svolge il ruolo di smascheramento del falso. Nel 1440 con l’opera DE falso credita et ementita Costantini donatione declamatio, l’umanista Lorenzo Valla dimostrò con prove linguistiche e stilistiche la falsità della Donazione di Costantino. Questo atto avrebbe dovuto testimoniare la Donazione di Costantino al Papa per quanto riguardava il domino temporale sull’Occidente. Ma questa era una falsificazione, confezionata ad arte nell’VIII secolo. Valla dimostrò la falsità del documento grazie alla sua eccelsa conoscenza della lingua latina e dell’evoluzione linguistica. Egli era un campo della filologia in un tempo in cui non esistevano vocabolari specifici.

Questa edizione fa pare dell’edizione Ughelli. È stata integrata dall’editore per il confronto con il diploma dell’imperatore Enrico II. L’accertamento dell’autenticità dei diplomi riguarda la critica delle fonti e la medievistica come disciplina scientifica. I medievalisti seicenteschi erano spesso uomini di chiesa. La critica delle fonti nacque in ambienti religiosi. La storia era scritta da filosofi, politici e letterari che accedevano a fonti orali o attraverso documentazioni delle cariche pubbliche. Lo studio delle fonti era praticato da filologi, collezionisti e archivisti: gli eruditi. L’esegesi delle fonti è possibile grazie al loro lavoro.

3.5 Un mulino amalfitano nell’XI secolo

(la fonte documentaria: il contratto notarile)

Nell’archivio di Stato di Napoli era conservata una pergamena di forma quadrata e scritta in “curiale amalfitano”.

Questa fonte è andata distrutta durante la 2° Guerra Mondiale. Era compresa in una raccolta di documenti prodotti nel ducato di Amalfi prima della conquista normanna (1073). Il ducato di Amalfi era un minuscolo stato costiero che si era reso autonomo dall’impero bizantino.

Il documento è un contratto privato del 1034. Tratta di uno scambio di beni (permuta) fra Maria e suo padre Giovanni. Maria cede la parte di un mulino ad acqua ad Atrani, in cambio di una cassa e una coperta di lana.

Molte parole erano illeggibili. La filologia e la diplomatica hanno sviluppato un linguaggio convenzionale fatto di segni e usi particolari, ad esempio la croce rinvia all’invocazione a cristo. Il contratto era redatto dal notaio. Era scritto in un linguaggio ricco di formule fisse.

Il notaio è un professionista della scrittura. Gode della pubblica fiducia e dà validità pubblica a ciò che scrive o meglio ciò che roga. Si tratta di una originale creazione del Medioevo. Ad Amalfi il notaio era detto scriba. Poi a partire dal XI è detto curiale.

Nel Medioevo i notai si tramandavano una serie di forme che garantivano l’autenticità degli atti. Ad esempio dalla grafia: la curiale amalfitana indicava la grafia dei notai amalfitani, difficilmente leggibile per chi non apparteneva a questa professione. Quindi l’attività notarile si trasmetteva tramite rapporto privato di apprendistato. In altre aree ogni notaio aveva il proprio sigillo di riconoscimento.

Chi utilizza un atto del genere deve conoscere le modalità di produzione e le formule. È necessario fare ricorso anche alla diplomatica.

L’atto presenta la datazione del ducato e non quella normale. Quindi bisogna conoscere la successione dei duchi di Amalfi per calcolare l’anno.

 Nel Medioevo si suddividevano gli anni in cicli di 15 anni. Questa era l’indizione[13]. L’anno indizionale cominciava il 1 Settembre e finiva il 31 agosto. Nel testo si fa riferimento al secondo anno di indizione (è il 1034 o il 1049).

Ecco un’altra fonte la cronologia, materia “erudita”. La cronologia è un grande aiuto per smascherare falsi. Ma anche se falso un documento non va ignorato, proprio come l’eclatante Donazione di Costantino.

La permuta avviene fra tre sconosciuti (il padre Giovanni, la moglie Anna e la figlia Maria). Il mulino, la cassa e la coperta erano eredità di Anna. Dalla permuta emerge che Giovanni prende il mulino, mentre Maria e l’anonima sorella prendono la cassa e la coperta.

Questo atto può aiutarci a tracciare un ritratto della società, dell’economia e della mentalità amalfitana dell’XI secolo.

Innanzitutto possiamo conoscere il “diritto privato” dell’epoca. Fra le competenze dello Stato non rientravano gli atti di compra-vendita, o di eredità o di donazione o di formazione di un’azienda. Il diritto non era prerogativa dello Stato ma della società civile. Maria, Giovanni e Anna avevano le stesse prerogative giuridiche, si riconducevano alla tradizione delle “legge romana”. Invece a Salerno le donne non compivano le proprie transazione economiche liberamente ma erano soggette al mundualdo (un tutore, padre o marito o arimanno).

Il Mundio (o Mundeburdio), in latino medievale mundium (dall’ antico inglese mundeburdio), indicava, nelle società germaniche dell’Alto Medioevo, una netta demarcazione fra gli uomini liberi, che fanno parte a pieno titolo del popolo e tutti gli altri. Godevano dei pieni diritti solo i capifamiglia in grado di portare le armi. Non erano liberi o di comparire davanti alla giustizia, gli schivi, i “commendati” (uomini davvero poveri), le donne, i figli. Tutti questi erano soggetti alla “mano” dell’uomo libero, che è tenuto a proteggerli e rappresentarli in giudizio. Quindi la donna è soggetta al mundio del padre e del futuro marito.

Il Mundio perderà significato, ad eccezione della sfera familiare, con l’avanzare della Signoria di Banno. Nel diritto domestico le consuetudini germaniche verranno abbandonate dal Mille in poi.

Le formule sono prolisse e l’atto è pienamente formale. È pieno di formule di cautela. Questo atto indicava una permuta perpetua. Oggi ci sarebbe il rinvio all’articolo. Le formule di questa fonte indicavano i limiti dell’azione giudiziaria. Nel documento è presente anche la sanctio (ovvero la sanzione) di 30 bisanti qualora non si fossero rispettati gli accordi. Il notaio aveva una cultura pratica, che non rispetta i casi e l’ortografia e coniuga male i verbi e introduce vocaboli sconosciuti. Si tratta di una lingua artificiale, redatta in due originali, poiché ciascuna delle parti conservava il suo.

La scrittura si estende alle situazioni familiari, sociali e politiche. La fonte indica le oscillazioni fonetiche dei volgari meridionali, addirittura di vocaboli derivati dal greco medievale. L’atto va analizzato secondo la lingua italiana, la dialettologia e la lessicorgrafia.

L’atto descrive una realtà concreta. Essa rappresenta contratti di nomi di centri abitati, località, oggetti e arnesi. L’atto è importante per la gestione del mulino ad acqua. Nel ducato di Amalfi la proprietà dei mulini era divisa in quote, non in quantità ma in durata. Maria cedeva la propria porzione di durata.

I ricavi e le spese si dividevano in base alla suddivisione fra i vari proprietari in base alle quote-durate. Le quote durate erano esercitabili in giorni e non in interi mesi. Lo studioso Mario Del Treppo pensa a una commercializzazione assai sviluppata dei mulini. Ripartire le quote-durate significava ripartire il rischio degli investimenti: erano tipo le azioni di una società. Tutto ciò indicava flessibilità e mentalità imprenditoriale e attaccamento alla terra natia. Si poteva commerciare all’estero e poi ritornare per il macinato.

Altro elemento importante è il patronimico. L’atto presenta che ognuno dei testimoni richiama la propria genealogia, ritenendola “nobilitante”. Uno si ferma al titolo di comes, che prima indicava i proprietari terrieri. L’inserimento di una comitissa indicava la trasmissione anche per via femminile. Importanti sono le etimologie anche dei nomi. Qui sono nomi latini o greci, probabilmente c’era un legame di tradizione greca e bizantina. Vi è rarità di nomi longobardi, che provenivano da Salerno, Benevento e Capua.

Quindi riusciamo ad estrapolare il “quadro mentale” di quella società: la concezione del tempo, la discendenza, la memoria, i valori materiali, i comportamenti, i sentimenti e le aspirazioni. Le Goff afferma che il livello della storia della mentalità è quello del quotidiano e sfugge ai soggetti individuali. È il pensiero comune fra Cesare e il suo ultimo generale.

All’inizio l’atto era finito nel monastero benedettino femminile di S. Maria di Fontanelle di Amalfi. Ma come è finito lì? Quando un bene passava a un altro proprietario, il nuovo proprietario riceva di norma tutta la documentazione. Quindi gli enti religiosi sono fondamentali poiché sono gli unici che hanno conservato tali documenti giuridici. Per chi vuole conoscere l’economia e il quadro mentale dell’XI secolo è necessario rivolgersi a questi atti privati o archi di enti religiosi.

Il monastero benedettino femminile di S. Maria di Fontanelle di Amalfi fu accorpato all’Abbazia di Santissima Trinità a Cava dei Tirreni

3.6 Federico II e la distinzione fra regnum e sacerdotium

[14] [15]

Federico II di Svevia (1194-1250) fu l’imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Sicilia. È una delle figure più suggestive di tutti i tempi. Il mito è partito già da quando era in vita.

Una delle iniziative più straordinarie di Federico II è la promulgazione del cosiddetto Liber Augustalis[16] (libro di Augusto) nel 1231. Si tratta di una raccolta delle leggi del Regno di Sicilia.

Riassunto:

Federico II è Augusto. Richiama alla volontà di paragonarsi a Cesare Augusto. Federico II è imperatore, re di Sicilia, re di Gerusalemme e di Arles. Inoltre è Pio, Vincitore e Trionfatore.

Il Proemio inizia con un racconto della Genesi dell’Universo fino ad arrivare all’uomo come più degna delle creature. L’uomo inoltre si è macchiato del peccato originale. Quindi anche se Dio era stato clemente con gli uomini, l’uomo in genere non avuto scrupolo ad invischiarsi nelle controversie.

Pertanto il potere laico ha il dovere di reprimere i delitti sfrenati. L’imperatore (o il re o il principe) difende la Chiesa dai detrattori della fede, non permettendo alla Chiesa di “insozzarsi” con gli affari amministrativi. In modo che Impero e Chiesa possano abbracciarsi a vicenda come due sorelle.

Queste leggi varranno solo nel Regno di Sicilia. Inoltre saranno aggiunte alle Costituzioni di Melfi anche le disposizioni dei precedenti re di Sicilia.

Analisi:

La fonte esaminata non è stata prodotta da istituzioni ecclesiastiche e non è legata a finalità religiose e non è un libro penitenziale[17].

La fede religiosa, però, pervadeva intensamente ogni aspetto della vita. Il cristianesimo impregnò tanto il Medioevo, quasi ad essere il più importante elemento di unità di quell’età eterogenea.

Il Proemio del Liber Augustalis (o Costituzioni di Melfi) è un esempio perfetto: Federico II e i suoi giuristi riflettono sul senso ultimo dell’esistenza umana affinché giustificassero l’azione legislativa nel Regno di Sicilia, fondato dal normanno Ruggero II d’Altavilla nel 1130.

Il Re di Sicilia, proprio come gli altri princeps, ovvero, i titolari dell’autorità temporale, ha il potere di legiferare perché ha ricevuto da Dio il compito di frenare la malvagità degli uomini, sorta dal peccato originale di Adamo ed Eva.

Il testo del Proemio è divisibile in 3 nuclei principali:

Nel testo è presente l’arenga (creazione e fondamento del potere temporale), la narratio (Regno di Sicilia) e la dispositio con due verbi dispositivi (volumus iussimus).

Il Proemio presenta una precisa concezione del potere temporale, della sua origine e legittimazione, del suo compito. Dobbiamo inquadrare la questione nel rapporto fra regnum (funzione o potere politico, cioè del rex) e sacerdotium (funzione o potere religioso, cioè del sacerdos).

Che effetto ebbero le diverse posizioni teoriche e dottrinali riguardo al rapporto fra regnum e sacerdotium? Quali effetti ebbe nel peri9odo dello scontro politico, militare e ideologico fra il papato e l’Impero?

Era il periodo della “lotta per le investiture” (XI-XII secolo) e ai conflitti fra il Papato e gli Imperatori svevi, Federico I Barbarossa e Federico II (XII-XIII secolo).

Partiamo dalle Sacre Scritture. Erano sempre presenti nella vita di un individuo del Medioevo. Gli uomini cercavano di conformarsi i propri pensieri e le proprie azioni alla Bibbia.

Il Proemio contiene alcune citazioni letterali della Bibbia, ovvero, due importanti parabole evangeliche:

  • Quella dell’amministratore cacciato dal suo padrone perché ha dissipato i beni e a cui si contrappongono l’operato dei principi che devono tener conto di Dio;
  • Quella dei talenti nascosti sotto terra, che Federico farà “fruttare”. Il talento è una moneta. Il padrone distribuì i talenti ai suoi 3 schiavi. Due guadagnarono, mentre, il terzo lo aveva nascosto. Il padrone adirato gli ritirò il talento

Ad esempio Dio è definito nella Bibbia come rex regnum et princeps principum, presente nella I lettera di Paolo a Timoteo e nell’Apocalisse, oppure, Dio è presentato con la metafora del sacrificio del Vitello.

Secondo Federico II provvedere alla legislazione della Sicilia significa offrire un vitello a Dio in modo da ottenere il perdono dei peccati.

Federico II si presenta come l’uomo che conforma il proprio operato alla parola di Dio, svolgendo il proprio specifico compito, quello della villicatio. Federico II, in qualità di cristiano, risponde alla propria “vocazione”: è chiamato (o vocatus) al vertice dell’Impero e dotato da Gesù Cristo di particolari talenti, ovvero, i domini e le virtù che deve far fruttare, proprio come i servi buoni della parabola.

Altri passi del Proemio rinviano alle Sacre Scritture. Ad esempio il concetto della necessità del potere temporale. Riecheggiano le parole di Paolo di Tarso (“le autorità sono stabilite da Dio”). Paolo sintetizzava il suo pensiero nella frase: Necessitate subditi estote “è necessario sottomettersi”, concludendo che ciascuno deve dare ciò che gli è dovuto, ovvero, pagare le tasse all’autorità. Paolo spiega l’importante affermazione di Gesù nel vangelo di Matteo: <<Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio>>.

Il Promeio del Liber Augustalis rifletteva su questi due passi del Nuovo Testamento: il Reddite Caesari di Gesù e il Necessitate subditi estote di Paolo.

Il Reddite Caesari di Gesù implicava la separazione, concettuale e funzionale, fra regnum e sacerdotium.

Il Necessitate subditi estote di Paolo affermava il fondamento divino di ogni autorità temporale, a cominciare dall’Impero Romano.

La funzione politica (regnum) e quella religiosa (sacerdotium) sono separate ma al tempo stesso connesse.

Nel 313 Costantino, insieme a Licinio, pose fine alle persecuzioni contro il Cristianesimo dichiarandone la liceità.

Poi nel Concilio di Nicea del 325 Costantino assunse la protezione delle Chiese e convocò il primo concilio ecumenico.

Teodosio nel 380, con l’editto di Tessalonica, dichiarò il cristianesimo religione di Stato e proibì i culti pagani. Così il cristianesimo divenne religione di Stato. Impero e religione divennero universali e chiamati a collaborare.

Nel diploma del 962, Ottone I si riteneva imperatore per volontà della Divina Provvidenza: il suo compito era prendersi cura del vantaggio di tutti in particolare delle chiese di Dio.

Federico II afferma che i principes gentium sono creati dalla Divina Provvidenza e cita come loro primo dovere la difesa della Chiesa dai suoi nemici, soprattutto gli eretici.

Ma le interpretazioni di Ottone I e Federico II sono diverse.

Al tempo di Ottone I, regnum e sacerdotium si sovrapponevano e confondevano. Il Papa era a capo di una delle chiese che Ottone proteggeva. Però il papa Romano restava l’interlocutore più importante di Ottone, ma al tempo stesso il papa non poteva intromettersi nel potere pubblico.

Al tempo di Federico II, il papa romano era diventato il vertice assoluto dell’organizzazione ecclesiastica, l’incarnazione vivente del sacerdotium: esisteva solo e un’unica sacrosancta ecclesia. La Chiesa Romano-cattolica, organizzata gerarchicamente sotto l’autorità del Pontefice, infallibile perché santa e dunque custode dell’ortodossia e feroce persecutrice dell’eresia.

Infatti fra XII e XII secolo si diffusero innovative forme di spiritualità: alcune erano fortemente perseguitate dalla Chiesa. La lotta all’eresia divenne un aspetto precipuo per l’azione papale in tutto l’Occidente. I principi, infatti, erano chiamati a collaborare, eseguendo le sentenze dei tribunali dell’Inquisizione, fondati a primi del 1200.

Il papa aspirava a indirizzare le azioni dell’Imperatore e di tutti i principes gentium (i sovrani degli stati europei).

I papi teocratici o ierocratici[18], Gregorio VII (1073-1085), Innocenzo III (1198-1216) e Innocenzo IV (1248-1254) non negavano la separazione fra regnum e sacerdotium. Il potere temporale derivato da Dio era affermato nella lettera di Paolo ai Romani com dipendenza dei principi dal papa, ritenuto il Vicario di Cristo in terra.

Innocenzo III, tutore di Federico II, si qualificò come Vicario di Cristo e non più di Pietro, fondatore della Chiesa Romana. Questa affermazione religioso-politica condizionò tutta la politica europea.

Il potere si “sacralizzo”. Lo stesso Proemio ne è la dimostrazione. I concetti presi dalla Bibbia vengono affermati con un diretto collegamento dell’Imperatore e Re con Dio. Addirittura diviene Vicarius Chisti, con il diritto di vita e di morte su tutti i suoi sudditi. I principi secolari stabiliscono (e sono arbitri: qui c’è un richiamo a Seneca) quale “destino, rango e condizione deve avere ciascuno” in quanto sono gli “esecutori delle decisioni divine”.

Lo stesso Proemio si richiamava a documenti privati di Papa Onorio III, contemporaneo di Federico. La lettera era diretta ai nobili di Castiglia (1218), esortati a impegnarsi per la liberazione del loro re, Ferdinando III. Onorio cita il “Date a Cesare”, intendendo la derivazione del potere temporale a Dio. I principi divini devono assicurare la pace e la giustizia, distribuendoli agli uomini. Fu Pier delle Vigne ad entrare in possesso di questa lettera: egli era un importante collaboratore di Federico II.

Kantorowixz sostiene che il Proemio delle Costituzioni Melfitane “creano i principi secolari”. Il potere temporale esiste per necessitas rerum. Questo concetto derivava da Aristotele (riferimento alla sfera sublunare). Kantorowicz esaltò la ersonalità straordinaria di Federico II e la sua classicità sublime.

Ottone propone di operare per il vantaggio di tutti, mentre, il Proemio presenta una differenza enorme. Federico esegue la volontà divina e  “mette a frutto i suoi” talenti <<osservando la giustizia e fondando le leggi>>. La giustizia e la legge sono al centro dell’attività di governo. Assicurare la giustizia era la funzione precipua del potere temporale. Fondare le leggi è un attributo esclusivo.

I secoli XI-XIII segnarono una svolta straordinaria per la storia del pensiero e delle istituzioni occidentali. Non solo la Chiesa si trasformò con il Papato di Gregorio VII, ma rinacquero gli studi del diritto, soprattutto il diritto romano, tramandato dal Corpus iuris civilis dell’Imperatore Giustiniano, pubblicato fra 529 e 533.

Il Liber Augustalis è una chiar concezione romanistica del potere pubblico: il princeps è il fondatore delle leggi (iura). La promulgazione di unico corpo legislativo, inglobante anche le leggi dei precedenti re di Sicilia e dello stesso Federico II è un’imitazione di Giustiniano.  Infatti l’intitolazione (Feliz Pius Victor et Triumphator) si richiamava al Proemio delle Istituzioni di Giustinano. Federico II imitava Giustiniano anche nell’indicazione dei regni attraverso un aggettivo etnico, infatti, Federico II si dichiarava anche Re di Gerusalemme e di Arles (ex regno di Borgogna).

Il Liber Augustalis è una compilazione organica: la più importante del Medioevo, organizzata per materie, intendendo ricoprire ogni ambito di competenza regia. Addirittura vennero annullate alcune disposizioni in contraddizione con il Liber Augustalis. Nella tradizione germanica o altomedievale, invece, il diritto “germina” dal popolo stesso, ovvero, era un patrimonio di tradizioni o consuetudini preesistenti al singolo sovrano e non è emesso da un’autorità superiore. Invece nel basso Medioevo i sovrani ampliarono la propria sfera di competenza, costruendo organizzazione pubbliche assai articolate, regolate da norme centrali e affidate a ufficiali di nomina regia e specifiche magistrature. Il Liber Augustalis è il massimo esempio di razionalità e centralizzazione del potere: soltanto lo Stato del XVIII e XIX secolo si porrà come unica fonte della legge, negando i vari privilegi.

Il Proemio è un collage multicolore: riprende il Corpus iuris civilis, le Sacre scritture, gli autori classici come Seneca, teologi, filosofi e documenti della cancelleria papale. Questa è proprio dell’arte combinatoria, ovvero, lo scrivere per imitazione. È l’ars dictaminis. Difatti il Proemio è molto più raffinato del diploma di Ottone. Le raccolte di Pier Delle Vigne erano appunto Summae dictaminis e loro erano dictatores, ovvero, gli esperti di scrittura epistolare e oratoria pubblica.

I materiali linguistici erano mutati dalla scelta o rielaborazione di un’espressione testuale rispetto a un’altra. Contava lo “scarto” del singolo autore per far assumere un nuovo significato. Ad esempio gli stessi Reddite Caesari e Necessitate subditi estote furono interpretati in modo differente.

La novità del Liber Augustalis e la figura di Federico II si possono definire “laico” e “moderno”? Non possiamo dirlo. La sacralizzazione del potere temporale (presupposto della divisione fra la sfera politica e la sfera religiosa) non pregiudicava una visione del mondo tipicamente intrisa della spiritualità cristiana. Il processo di secolarizzazione laicizzazione dello Stato si realizzò con la rivoluzione scientifica, l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese, e non con il Liber Augustalis.

Federico II fu un personaggio di grande carisma: ispirò le sue azioni alla concezione sacra del potere temporale, all’ideale della giustizia, al proposito di rafforzare l’autorità centrale mediante una legislazione organica.

L’analisi del Proemio richiede la conoscenza della storia politica, lo scontro con il papato, la storia del diritto, la storia delle dottrine politiche, lo studio delle Sacre Scritture, della retorica, della filosofia, della teologia ecc.

3.7 Dante in una riunione del Comune di Firenze (fonte amministrativa)

Il Liber fabarum n. 5 è un registro dei verbali del Comune di Firenze. Qui fu presente anche Dante in una riunione del 19 giugno 1301.

Riassunto:

Il capitano del Popolo sottopose alla presenza dei Priori e del Gonfaloniere:

  • Il pagamento del servizio di 100 cavalieri per il Papa Bonifacio VIII e di stipendiare un capitano di ventura
  • Il versamento di 3000 libbre al Gonfaloniere dei fanti per tassare le persone del contado

Il giudice Guidotto de’Canigiani, il giudice propose questi due punti.

Dante Alighieri non propose il primo punto, ma solo il secondo.

Ci furono 49 voti a favore e 32 contrari per il punto 1)

Ci furono 80 voti a favore e 1 contrario per il punto 2)

Analisi:

Dante faceva parte del Consiglio dei 100 uomini. Il 19 agosto 1301 il Conisglio doveva deliberare su due argomenti:

  • La proroga di un sussidio militare di 100 cavalieri inviati in servizio a papa Bonifacio VIII contro gli Aldobrandeschi
  • Il pagamento di un contingente di fanteria, reclutato nel contado, per la difesa di Colle Valdelsa

I criteri della verbalizzazione sono:

Guidotto d’ Canigiani (due sì) e Dante (un no e un sì)

Votazione finale: 2 sì

 

V

Il verbale veniva redatto da un notaio, che prendeva appunti su foglietti volanti. Poi metteva tutto in bella forma nel Liber fabarum (un registro chiamato così perché le pallottole con cui si votava erano dette fave). Il testo era molto sintetico e formalizzato. È evidente che il capitano, Guidotto de’ Canigiani e Dante Alighieri argomentarono le rispettive posizioni, chiarendo le proprie motivazioni. Il verbale ritenne essenziali i due interventi.

Gli “organi collegiali” funzionavano così: i consigli delle arti (le associazioni di persone che esercitavano lo stesso mestiere), delle confraternite laiche, delle comunità religiose, delle diocesi.

Probabilmente questi “organi collegiali” si formarono pria nella Chiesa.

I Comuni come le comunità territoriali si autogovernavano mediante Consigli, formati per elezione o sorteggio, con una durata limitata nel tempo.

L’organo collegiale prendeva decisioni che valevano per tutti dato il principio di di maggioranza. Le decisioni valevano sia per chi votava contro, per gli assenti, per chi non vi prendeva parte, sia per gli “elettori”. Tutto ciò vale ancora oggi ed è il fondamento di ogni organizzazione democratica.

Gli esperti giuristi del Basso Medioevo come il canonico Sinisbaldo de’ Fieschi, ovvero, papa Innocenzo IV (1248-1251) e i teologi come Marsilio da Padova studiarono il funzionamento degli organi collegiali e la questione della sovranità di istituzioni collettive come il Comune, elaborando concetti come quello di maggioranza e di rappresentanza, che hanno un grande valore per noi.

La decisione dell’organo collegiale è considerata valida e legittima se è stata seguita una corretta procedura: convocazione della riunione, numero legale, discussione e dichiarazione di voto, scrutinio e verbalizzazione.

Pertanto le regole di funzionamento divennero “analitiche”, ovvero, la memoria scritta di ogni decisione veniva verbalizzata in registri pubblici e accessibili a tutti.

La partecipazione collettiva alla gestione del potere si fonda sulla scrittura. Le istituzioni del Comune e di altre comunità guadarono all’antichità come modello, basti pensare al nome di consoli per i primi ufficiali del Comune.

Fra 1100 e 1400 molti Comuni del centro e del Nord Italia furono assolutamente indipendenti, quasi delle città-stato. Ma i Comuni avevano una concessione di un’autorità superiore. Solo in Italia si può parlare di vera e propria civiltà comunale

I Comuni italiani furono un’esperienza straordinaria: crearono istituzioni originali, produssero una normativa molto abbondante (da leggi costituzionali a infinite regolamentazioni di aspetti di vita politica, sociale ed economica). Inoltre i Comuni elaborarono metodi di registrazione e di archiviazione fino a formare i più grandi depositi di scritture medievali dell’Europa. Proprio per questo si è preservato il verbale della riunione del 19 giugno 1301.

L’atto amministrativo ha la funzione di mantenere la memoria dell’attività svolta da un ufficio, una magistratura, un collegio.

L’abbondanza e varietà delle fonti amministrative è direttamente proporzionale al grado di sviluppo delle istituzioni comunali del Basso Medioevo.

Grazie all’archivio di Firenze possiamo sapere molto dell’età di Dante: le competenze del Consiglio dei 100, chi era il capitano del popolo, chi partecipava alle riunioni e quali “partiti” si formavano”, chi era contrario a Dante.

Inoltre se prendiamo se prendiamo di riferimento anche altri testi come la Cronica di Dino Compagni e la stessa Divina Commedia di Dante possiamo raccogliere molte informazioni e selezionarle.

Il verbale del 19 giugno1301 è degno di nota perché vi compare Dante. Per analizzare la notizia su Dante bisogna conoscere prima le istituzioni fiorentine e gli archivi che hanno prodotto il testo. Quindi dobbiamo avvalerci dell’archivistica e della storia delle istituzioni, in quanto scienze.

L’organizzazione comunale fiorentina vedeva la presenza del Consiglio dei 100, presieduto dal Capitano del Popolo (un ufficiale introdotto nel 1250).

Si semplifica dicendo che i Comuni italiani attraversarono 3 fasi:

Questa è una semplificazione, dato che ogni Comune ebbe una propria storia individuale, spesso molto diversa da quella degli altri. In alcuni casi la fase podestarile si sovrappose a quella di Popolo.

Al tempo di Dante esisteva sempre il podestà forestiero-annuario. Il Podestà divideva il potere con il Capitano del Popolo, espressione del movimento politico del Popolo. Sia il Podestà che il Capitano del Popolo avevano le proprie competenze giudiziarie e amministrative, il proprio “ufficio”, i propri consigli, la propria forza militare.

I punti furono discussi prima in una riunione congiunta del Consiglio dei cento, del Consiglio generale, Consiglio Speciale e Capitudini delle Arti.

Il Consiglio generale del Capitano di Popolo era composto da 25 rappresentanti per ogni sestiere, quindi erano 150 persone, dato che Firenze era divisa in sei quartieri (i sestieri). Ai consigli generali partecipavano sempre i capi delle 7 Arti maggiori.

Il consiglio speciale del Capitano del Popolo era forato da 6 rappresentati per ogni sestiere, quindi 35 persone. Dante fu l’unico che propose un voto contrario sul primo punto (quello riguardante il papa). La discussione fu animata e fu rinviato. Invece tutti erano concordi sul 2° punto.

Alle riunioni erano presenti i Priori delle Arti e il Gonfaloniere di Giustizia. Consiglio generale, Consiglio speciale, Priori delle Arti e Gonfaloniere di Giustizia costituivano un unico organo comunale.

Il Priorato delle Arti fu istituito nel 1282. Era composto da 6 persone, in carica per due mesi, in rappresentanza di ogni sestiere. Il Priorato deteneva il massimo potere nella città e doveva tener conto di tutti i Consigli e rispettare gli statuti comunali.

Il gonfaloniere di giustizia fu aggiunto ai Priori nel 1293 (Ordinamenti di Giustizia). Portava il vessillo (gonfalone) del “partito-Popolo”, segno del suo potere e vigilava sui provvedimenti degli “Ordinamenti di Giustizia”.

Gli Ordinamenti di Giustizia, emessi dal Priore Giano della Bella nel 1293 prevedevano l’esclusione dei “magnati” (i grandi o potenti) da tutte le cariche comunali. Nel 1293 fu redatta una lista anti-magnatizia e vi rientravano 73 casate di Firenze e 74 del contado. Questa legislazione voleva punire tutti i magnati che si erano macchiati di delitto.

I Priori e i Gonfalonieri di giustizia si identificavano con il governo di Firenze o con la “Signoria”. Pertanto vivevano obbligatoriamente nel Palazzo della Signoria, o Palazzo Vecchio. Nel 1301 era in costruzione, quindi nel Bargello.

Dante era stato Priore, dal 15 Giugno al 14 Agosto del 1300. Due giorni prima della scadenza del bimestre i priori uscenti si riunivano con i capi delle Arti e con alcuni “saggi” e sceglievano i nuovi Priori.

Nel 1301 il Priorato era controllato dalla fazione cittadina detta dei Bianchi, guidata dalla famiglia Cerchi, che prevaleva da qualche anno sui Neri, capeggiata dai Donati. Dante era gradito ai Cerchi, perciò fu scelto per il Priorato e il Consiglio dei 100.

Quindi il governo del “Comune di Polo” è alquanto complesso. L’opposizione nobiltà/Popolo è del tutto insufficiente per descrivere l’articolazione sociale e politica fiorentina.

I termini “nobile” e “aristocratico” sono generici. Significano i più “conosciuti” o i “migliori”: quelli che sono e sono considerati da tutti i migliori e i più importanti.

I “nobili fiorentini” erano detti “magnati”: gli esclusi dalla vita politica nel 1293. Era una “classe” emarginata dal Popolo (i mercanti o borghesi)? O era un ceto politico di famiglie ricche e potenti, che prima governavano la città?

I magnati erano accomunati dall’avere un cavaliere in famiglia. Anche Dante ce l’aveva: il suo antenato Cacciaguida fu un crociato. Ma non si può considerare davvero Dante come un magnate, perché essere cavaliere nel XII secolo, ai tempi di Cacciaguida e delle Crociate, era diverso rispetto al 1300 quando la cavalleria era diventata un sinonimo di nobiltà.

Erano magnati colo che erano considerati da tutti come dei magnati. Il piano della realtà socio-economica-giuridica si confonde con quello della rappresentazione. Il gruppo, che emarginò i magnati a Firenze, erano le 7 Arti Maggiori:

Le Arti di Giudici e notai, della Calimala (importatori di stoffa), cambiatori di moneta, produttori di panni di lana, Mercanti di Por Santa Maria, Medici e Speziali, venditori di panni. Anche la definizione di “Popolo Grasso” è semplificativa.

La categoria “borghese” speculare a quella di proletario fa parte del concetto di “classe” elaborato da Marx. Riguarda soprattutto le società industriali dell’Ottocento: è un errore utilizzare tali categorie. Continuamente mettiamo alla prove il passato con le categorie interpretative del presente.

Cosa decise la riunione del 19 giugno 1301? Firenze aveva ricevuto la richiesta di 100 cavalieri da parte del cardinale Matteo di Acquasparta, legato pontificio in Toscana. Firenze era guelfa, addirittura esisteva la Parte Guelfa, che si occupava di vigilare sull’orientamento guelfo degli eletti alle cariche e ai consigli pubblici. Firenze, inoltre, era a capo della Lega Guelfa in toscana, un’alleanza di Comuni dotata di una autonoma forza militare.

L’orientamento internazionale guelfo comprendeva anche gli Angioini, che nel 1266 aveva conquistato il Regno di Sicilia a scapito degli Svevi. I Fiorentini affiancarono l’esercito angioini nel 1301, impegnati contro gli aragonesi. Gli Aragonesi avevano conquista la Sicilia con la guerra del Vespro del 1282. Perché Dante si opponeva al Papa?

Da oltre 30 anni nessun re di Germania era venuto in Italia a prendere la corona imperiale e occuparsi della penisola. Il maggiore pericolo per l’indipendenza di Firenze era Bonifacio VIII, sostenuto dai Neri, che intendeva trasformare la Toscana sotto un suo coordinamento egemonico. Nel settembre 1300 il cardinale di Acquasparta aveva scomunicato Firenze e aveva cercato di reintegrare i Neri.

Tutti sapevano, ora, che stava per arrivare Carlo di Valois, fratello del Re di Francia, assoldato dal Papa e destinato a una spedizione in Toscana. La situazione era critica. La politica interna era strettamente intrecciata a quella estera. Il potere dei Cerchi era insidiato dai Neri, dal papa e dai Comuni guelfi di parte nera. Portare i fanti a Colle Valdelsa significava rendere “guelfo bianca” quella fortificazione.

Il Consiglio del 19 Giugno cercò di non inimicarsi Bonifacio VII, infatti, Bonifacio VII voleva sequestrare agli Aldobrandeschi dei feudi da dare ai suoi nipoti. Ma il Papa e il cardinale Acquasparta progettavano di abbattere il regime della città.

Dante aveva condotto la sua attività di Priore non mostrando accondiscendenza verso Bonifacio VIII. Il dissenso di Dante verso Bonifacio VIII, dimostrato anche in seduta comunale, dimostra che aveva anche un certo consenso all’interno della sua fazione. Dante ottenne un buono numero di voti contrari (32 pro-Dante contro i 49 anti-Dante). Questa posizione però si dissolse nei successi organismi chiamati a deliberare. Robert Davidsohn ha definito Dante come il “capo di una minoranza nella fazione dominante”.

Queste decisioni furono nocive per Dante. Carlo di Valois fu nominato “paciere” di Toscana, nel novembre 1391, da Papa Bonifacio VIII. Pertanto l’angioino acconsentì al ritorno in città dei Neri. Seguirono saccheggi e vendette politiche. Fu insediato un nuovo podestà, alleato dei Neri, che condannò ingiustamente Dante per baratteria.

I Neri schiacciarono i Bianchi attraverso un’indagine d’ufficio riguardo agli ultimi Priori. Era uno dei tanti sottili provvedimenti tipici della turbinosa repubblica fiorentina e che portarono all’esilio di Dante.

Le forze sociali e politiche in Firenze si combattevano con la violenza fisica ma anche con la strumentalizzazione delle istituzioni. Per controllare la città si creavano nuovi organi di governo, che esautoravano i vecchi, e si promulgavano leggi speciali, come la morte civile dell’avversario attraverso la confisca dei beni e l’esilio.

La Firenze duecentesca non ha nulla della nostra democrazia. La violenza e l’instabilità delle istituzioni erano la normalità dei Comuni italiani del XII- XIII secolo. La riduzione della violenza e la stabilità istituzionale si raggiunsero mediante il passaggio a un regime autocratico (signoria, come i Visconti a Milano) o l’Oligarchia (come a Venezia), dunque mediante la fine del Comune come forma di governo collettivo.

Dante non era qualificato con l’appellativo ser. Non era notaio, non era medico ma si era iscritto all’Arte dei medici e degli speziali per accedere alle cariche politiche. Non era un nobile (poca nostra nobiltà di sangue). Egli non rientrava nel gruppo egemone del Comune: professionista delle armi, mercanti, giudice o notaio. Era un semplice cittadino, forse abbastanza agiato ma non ricco. Dante non condivideva appieno gli interessi di una delle fazioni ma poté acceder alle cariche più alte e mettere alla prova le sue capacità. Nella fase popolare del Comune parteciparono circa il 25 % della popolazione maschile. Era una percentuale più alta di quella del primo Novecento.

Il Comune medievale fu “democratico”, ma non precisamente.

3.8 Il capitalismo medievale in una lettera di cambio (fonte contabile)

Francesco di Marco Datini fu un importante mercante di Prato, morto nel 1410. Egli merita un posto particolare nella storia dell’economia bassomedievale. Difatti presenta una vastità enorme di attività bancarie, finanziarie e commerciali. Ma soprattutto il suo archivio conta decini di migliaia di pezzi, oggi pressoché integro e custodito nell’Archivio di Stato di Prato.

[19]

Esaminiamo una lettera di piccole dimensioni: una semplice strisciolina di carta.

La lettera era chiusa in origine, è stata ripiegata fino ad assumere la forma di un piccolo rettangolo di carta bloccato da un sigillo di cera.

In passato l’indirizzo era segnato sul retro del foglio – sulla parete esterna – come oggi capita per le comunicazioni di rilievo giuridico (in modo che il destinatario non può negare di aver ricevuto la comunicazione).

L’indirizzo della lettera era: “Francesco di Marcho da Prato, in Barzalona”. Non ci sono altre indicazioni – via, numero civico, nazione – poiché la lettera era recapitata da corrieri privati, al servizio dei mercanti o dei governi. I corrieri trovavano facilmente il destinatario.

L’indirizzo è seguito da un particolare segno identificativo del mittente, Antonio di Neve. Antonio di neve scrive da Montpellier a Barcellona. A ricevere la lettera non fu Francesco di Marco Datini in persona – poiché viveva a Prato – ma fu l’azienda di Francesco di Marco Datini, in questo caso la filiale della compagnia Datinidi Barcellona.

Datini aveva una fitta rete di società – compagnie erano le società commerciali e compagni erano detti i soci – sparse in città di mezza Europa:

  • Erano aziende di attività creditizia: i banchi;
  • Erano aziende a carattere commerciale: i fondaci (“magazzino”) che importava ed esportava in proprio e per conto di altri.

Anche Antonio di Neve era un mercante-banchiere. La sua lettere ha la stessa struttura di una lettera privata. Non manca il riferimento alla fede: in alto e al entro del foglio si legge l’invocazione a Dio, ovvero, la simbolica (la croce †) e letterale (Al nome di Dio), seguita dalla data.

La lettera si conclude con un augurio (Cristo vi guardi), usato nella corrispondenza epistolare: oggi è caduto in disuso.

Questa non era una lettera comune, difatti manca l’allocuzione al destinatario (Caro o Egregio), ma era una “lettera specializzata” secondo la definizione di Federigo Melis, uno degli storici economici più importanti del Novecento.

Si tratta di una “lettera di cambio”: un documento che permetteva il trasferimento di denaro a distanza. Oggi queste funzioni sono espletate dalle banche tramite reti informatiche ad esempio un bancomat o tramite connessione al web. Il nostro sistema bancario, basato sul collegamento fra diversi istituti, risale proprio al Medioevo e a mercanti-banchieri come Antonio di Neve e Francesco Datini. Sappiamo quando – XIII e XV secolo – e dove – in Italia – nacquero la banca moderna: un’ “infrastruttura” indispensabile dell’economia attuale, un elemento fondamentale del capitalismo occidentale.

La lettera è del 5 febbraio 1410. È scritta in un linguaggio tecnico e si tratta di volgare toscano.

Da Montpellier Antonio di Neve spicca un ordine di pagamento a distanza a favore di tale Gerardo Cattani, un mercante lucchese residente a Barcellona, beneficiario dell’operazione – cioè colui che ritirerà i soldi nella 2° piazza – che ritirerà il denaro presso il Banco Datini di Barcellona – è il trattario, ovvero, la 2° piazza, filiale della 1° piazza – a cui è indirizzata la lettera.

La somma trasferita da Antonio di Neve a Gerardo Cattani, per il tramite dei due banchieri (i Datini), è espressa in due differenti monete o valute: la lira di Barcellona e il franco del regno di Francia, indicati con i sottomultipli.

Pertanto la lettera è di cambio: l’operazione effettuata è, in primo luogo, un cambio di due valute.

Il tasso di cambio è, infatti, regolarmente indicato (a soldi 15 denari8 per franco) ed è comprensivo dell’operazione, che oggi intendiamo con il termine di “commissione bancaria”.

La somma è indicata prima in lettere e poi è ripetuta per sicurezza in numeri, introdotti dal “cioè”: si tratta di una regola, che rispettiamo anche noi, quando compiliamo un bollettino postale o un assegno, dove bisogna scrivere l’importo due volte, in lettere e in numeri.

Le funzioni dei mercanti-banchieri medievali era quella di svolgere l’odierno “libretto di assegni” o un “conto corrente”.

Una banca custodisce il nostro denaro, fa da intermediario per trasferirlo tramite varie operazioni (bonifico bancario, pagamenti e prelievi mediante carta di credito o bancomat internazionale), soprattutto in altre parti del mondo e in valute diverse.

A ricevere i soldi di Antonio di Neve, il “prenditore” – cioè colui che versa il soldi al banco della 1° piazza o meglio detto traente – è Bartolino Bartolini di Parigi, il “datore” – cioè il banco della 1° piazza che riceve i soldi dal prenditore o traente – .  Anche Bartolini è un mercante: conosceva bene la compagnia Datini di Barcellona, poiché vi aveva lavorato in un ruolo subalterno dal 1404 al 1406.

I soggetti di questa lettera di cambio sono quattro e sono tutti “imprenditori” italiani:

  • Il datore (Bartolini): colui che versa il denaro nella 1° piazza, in questo caso Montepellier
  • Il prenditore o traente (Antonio di Neve): colui che riceve (prende) la somma nella 1° piazza – Montepellier – e scrive la lettera di cambio (trae)
  • Il beneficiario (Cattani): colui che preleva la somma nella 2° piazza, in questo caso Barcellona, in valuta locale
  • Il pagatore o trattario (Banco di Datini a Barcellona): cioè colui che riceve la lettera di cambio e paga il beneficiario

La lettera di cambio permetteva ai mercanti di mettersi in viaggio senza portarsi appresso i contanti. In questo caso parliamo di un datore = beneficiario, ovvero sono la stessa persona, ovvero, versava in una località e prelevava in un’altra.

Il guadagno per gli istituiti bancari era corrispondente al costo dell’operazione di cambio (di valute). L’indicazione a dì 16 vista significava che la lettera doveva essere pagata 16 giorni dopo la sua ricezione, dopo che era stata vista.

A vista è aggiunto nell’interlineo, sopra a usanza (secondo il solito) depennato. Questo è spiegato perché le varie piazze commerciali rispettavano convenzioni che si erano create spontaneamente: tutti i mercanti sapevano qua era l’usanza di Barcellona, diversa da quelle di altre città. in questo caso, Antonio di Neve ci ripensò e volle indicare il termine esatto a partire da cui bisognava cambiare la sua lettera. Forse Antonio di Neve aveva tenuto conto dell’andamento de cambi fra le varie valute (“borsa valori”). Spesso prima di inviare la lettera di cambio si prendevano informazioni, spedendo un’altra lettera a Barcellona.

La differenza spaziale e temporale rese la lettera di cambio uno strumento assai versatile per gli usi più diversi:

  • Per gestire il commercio internazionale evitando il trasporto materiale del denaro e velocizzando le transazioni
  • Per pagare un creditore su una piazza in cui il costo del denaro era inferiore
  • Per dialzionare la restituzione di un prestito

Fra Avignone, Barcellona, Firenze, Napoli e Venezia nacque, a partire dall’inizio del 1300’, un’intensa circolazione di lettere di cambio, oltre che di merci. La circolazione commerciale e creditizi integrarono quei mercati, che divennero un unico “grande mercato globale” – una precoce “globalizzazione” – limitata ad alcuni prodotti e a poche reigoni, particolarmente sviluppate, dell’Europa.

I cambia valute, specializzati nel prestito e nel cambio delle monete, agivano anche nell’antichità e nell’Alto Medioevo: il cambio di moneta avveniva sulla base del valore reale della moneta, ossia il metallo prezioso.

Invece il sistema bancario del Basso Medioevo è molto più raffinato. I 617 franchi che Bartolini versa a cattani non si spostano da Montpellier a Barcellona!

Ormai nelle principali piazze commerciali europee agivano sedi bancarie di diversi operatori, in contatto fra loro come la compagnia di Antonio di Neve e quella di Datini.

Il trasferimento di denaro era “virtuale”, come oggi, e ciò facilitva i commerci e le operazioni finanziarie per importi molto superiori a quello delle monete effettivamente possedute dagli operatori.

Tutto si basava sulla “fiducia” reciproca: gli operatori si conoscevano e si fidavano l’uno dell’altro, tanto da tirare fuori somme di denaro in cambio di un foglietto di carta.

La “fiducia” reciproca reggeva l’intero sistema: la certezza che il proprio collega rispetterà l’impegno preso permette a un sistema economico di svilupparsi, anche se lentamente nel corso del tempo nei mercati europei, attraverso i contatti fra gli operatori, attraverso crisi, fallimenti di singoli imprenditori e soluzioni tecniche come la lettera di cambio. È un sistema economico che si era dotato di regole da solo.

La lettera di cambio era un documento con immediati effetti giuridici, anche se non era emessa dall’autorità pubblica o da un notaio: ai mercanti bastava riconoscere la mano del proprio collega – la lettera era autografa – e il suo particolare segno identificativo.

I primi contratti di cambio erano stipulati da un notaio. A partire dalla fine del XIII secolo, invece, i mercanti si resero autonomi: l’enorme quantità di transazioni effettuate ogni giorno rendeva improponibile il ricorso al notaio. Pertanto era necessario un sistema di compensazione fra chi incassa e chi pagava. Infatti i mercanti elaborarono un originale e complesso sistema di registrazioni contabili, antenato della contabilità aziendale attuale.

Sia Antonio di Neve e sia la compagnia Datini di Barcellona registravano l’operazione sui propri libri contabili. Difatti abbiamo, nell’Archivio di Stato di Prato, il registro della compagnia Datini: un Libro grande nero segnato B come veniva chiamato. Alla carta 116 verso[20], dedicata a Bartolini, troviamo lo stesso linguaggio formalizzato della lettera di cambio.

Questo linguaggio formalizzato prevede che ogni parola, ogni singola preposizione ha un preciso e inequivoco significato. Viene registrato un “addebito” sul conto corrente dell’azienda di Bartolino di Nicholayo e conpagni, abitanti in Parigi.  Essi sono debitori della somma indicata dalla passata lettera di cambio di cui vengono citati i 4 soggetti (datore-Bartolini, prenditore-Antonio di Neve, trattario-Banco di Datini, beneficiario-Cattani). Quindi l’addebito sul conto era stato correttamente richiamato dalla stessa lettera di cambio. Insomma il conto corrente di Bartolini ha registrato un passivo, mentre, nei registri di Antonio di Neve gli viene segnato un attivo, poiché lì egli ha versato la somma.

Ma la registrazione continua. Sulla lettera di cambio erano contenute altre note di differenti mani.

Nelle due note è presente una voce detta prima: la lettera era stata spedita in due copie, di cui questa era la prima.

La registrazione è stata fatta dal vicedirettore del fondaco Datini di Barcellona, che accettò la lettera.

Una lettera di cambio poteva anche essere rifiutata, protesta, si diceva con lo stesso vocabolo che si usa oggi quando una banca si rifiuta di cambiare un assegno. La compagnia Datini di Barcellona avrebbe potuto rifiutare il pagamento nel caso in cui il datore o il traente non fossero stati affidabili oppure nel caso in cui l’operazione non fosse stata conveniente per ragioni di mercato.

Nel caso della lettera di cambio protesta, la lettera sarebbe tornata indietro a Montpellier con aggravio di spese. Le lettere protestate erano verbalizzate da atti notarili.

Anche le date presentano dei problemi:

  • L’accettazione è datata 15 febbraio 1409
  • La lettera portava la data del 5 febbraio 1410

Non si tratta di errori. La lettera, innanzitutto, ha impiegato 10 giorni da Montpellier a Barcellona, nel Febbraio 1410. Il banco Datini usa la datazione secondo lo stile di Firenze dove si faceva iniziare l’anno non il 1° Gennaio, ma tre mesi più tardi, nel giorno in cui il calendario liturgico stabiliva che si fosse verificata l’incarnazione di Gesù, il suo divino concepimento nel grembo di Maria, cioè il 25 marzo (nove mesi esatti prima della nascita del 25 dicembre). Questi sono due diversi modi di misurare il tempo. L’anno iniziava in momenti diversi nelle varie località dell’Europa e non sempre il 1° Gennaio (data della circoncisione di Gesù). A Firenze e nel banco Datini di Barcellona il 1410 sarebbe cominciato il successivo 25 marzo, mentre, fino al 24 marzo i fiorentini avrebbero continuato a datare 1409. In un documento fiorentino il 15 Febbraio 1410 corrisponde al 15 Febbraio 1411 del nostro calendario. Invece a Barcellona l’anno iniziava il 25 dicembre.

Queste differenze non ponevano problemi ai mercanti e ai bancari del tempo. Ogni luogo aveva i suoi usi cronologici, le sue monete, le sue unità di peso e di misura, che ogni mercante doveva e aveva imparato a gestire perfettamente. I mercanti, del resto, erano i massimi responsabili del contatto di ambienti territoriali, giuridici, economici e cultuali differenti. Quando si intensificarono i commerci, tutte queste differenze non furono abolite.

Nell’1800’ e nel 1900 la standardizzazoine del calendario e delle unità di peso e di misura non è stata affatto semplice. La Russia, prima della Rivoluzione, rifiutava il calendario in uso nel resto dell’Europa (quello gregoriano) continuando ad adottare il calendario giuliano. Invece per i pesi e le misure la Gran Bretagna è rimasta a lungo fedele al sistema duodecimale (a base 12) al posto di quello decimale.

La diversità di unità di misura coinvolgeva anche le monete: le valute circolavano liberamente. A Barcellona si poteva pagare con le monete locali: il diners de tern di rame, il croats d’argento, i fiorini barcellonesi d’oro.

O si poteva pagare anche con i ducati veneziane, lelire di Tours, i provesini francesi, i fiorini fiorentini. Oggi bisogna sempre cambiare la valuta se il paese utilizza una determinata moneta.

Le lire o libbre, i soldi e i denari barcellonesi indicati nella lettera di cambio come valuta sono monete fittizie, immaginarie, con rapporti fissi fra multipli e sottomultipli secondo il sistema derivante dall’età carolingia:

La lira/libbra non era mai coniata, neppure ai tempi di Carlo Magno. Era solo una moneta di conto. Tutte le operazioni erano registrate in moneta di conto, la cui corrispondenza con le monete reali cambiava nel tempo a seconda dell’andamento del mercato. Dobbiamo dire poi che ogni area usava le proprie monete di conto: la Francia il franco e la Catalogna la lira[21].

La lettera ordinava un cambio fra due monete di conto.

La seconda registrazione prevedeva che Gerardo Cattani “girava” a un’altra persona Jacopo Accettanti, un altro mercante. Si tratta, in assoluto, della prima attestazione della girata cambiaria,c he consentiva di passare ad altri la somma ricevuta utilizzando lo stesso titolo di credito (cioè lo stesso documento). Oggi una girata si firma sul retro di un assegno bancario con la dicitura GIRATE.

La naturalezza con cui viene accettata la girata fa pensare che fosse una pratica abbastanza diffusa. Difatti velocizzava ulteriormente i passaggi virtuali di denaro. Addirittura i passaggi sarebbero dovuti essere tre! Difatti Jacopo Accettanti aveva deciso di girare a sua volta la somma un terzo beneficiario, la compagnia dei Pazzi, corrispondente a Barcellona del banco Medici di Firenze, ma quest’ultima operazione fu annullata. Cassata significa annullata e la girata di Accettanti viene depennata.

Difatti nel Libro grande nero segnato B della compagnia Datini di Barcellona viene riportato solo la prima girata (da Cattani a Cettanti), che viene pagato non dal Banco Datini di Barcellona, ma dalla Banca pubblica di Barcellona (La tavola della Città). La Banca pubblica di Barcellona versò materialmente la somma e divenne contemporaneamente creditrice del banco Datini.

La registrazione si conclude con un rinvio alla carta 114 del libro grande dedicata alla banca pubblica di Barcellona, dove è segnata in attivo la somma giunta da Montpellier.

Operatori Istituti bancari
Bartolini Compagnia Antonio di Neve a Montpelier:

riceve il denaro da Bartolini e

“spicca” la lettera in favore di Cattani

Cattani Compagnia Datini a Barcellona:

riceve la lettera,

accetta la girata di Cattani in favore di Accettanti,

paga tramite la banca pubblica di Barcellona

Accettanti Banca pubblica di Barcellona:

versa ad Accettanti l’importo

Sembra un’operazione di oggi: un sistema creditizio e commerciale maturo è caratterizzato da una molteplicità di operatori e di istituti in rapporto fra di loro e da un’estrema circolazione virtuale del denaro.

Ciascuno dei soggetti ha un conto aperto con gli altri:

  • Cattani approfitta della lettera di cambio ricevuta su quella piazza per estinguere un debito che aveva con Accettanti, evitando i costi di un altro trasferimento finanziario
  • Il banco Datini aveva un credito nei confronti del Banco pubblico di Barcellona, attraverso il quale liquida il secondo beneficiario

A cosa serve questa informazione dopo una faticosa analisi delle tecniche contabili e dello specifico linguaggio mercantile?

In passato la documentazione contabile, privata e pubblica, è andata distrutta poiché non ritenuta idonea alla ricerca storica. Solo singole registrazioni erano state studiate dato che riguardavano opere d’arte pagate attraverso i banchi. Però uno studio complessivo del sistema di scritture e delle tecniche di calcolo elaborate dai mercanti – libri mastri, libri-giornale, libri di cassa, lettera di cambio, partita doppia, ammortamento – permettono di ricostruire la storia della banca e del “capitalismo medievale”. La raffinatezza degli strumenti creati dai mercanti-banchieri per misurare, comparare, valutare, registrare, controllare la multiforme realtà economica, che vivevano, è sintomo di una forte razionalità. La razionalità economica è un elemento precipuo per la civiltà occidentale.

Inoltre le infinite serie di dati contenuti nelle scritture contabili possono essere tradotte statisticamente, al fine ricostruire la storia della produzione, del commercio e della finanza bassomedievale. Le operazioni bassomedievali presentavano la causale: oggi non c’è. Veniva specificato perché la merce si comprava, perché si retribuiva il servizio, perché il prestito era restituito.

Anche altre fonti scritti bassomedievali conservano abbondanti e seriali caratteristiche, che possono essere convertiti in metodi quantitativi (elaborazione di dati numerici con elaborazione di grafici, tabelle, statistiche). Non tutte le fonti permettono un approccio quantitativo. Invece qui si può classificare i dati, proprio come nelle fonti demografiche e fiscali (censimenti).

I soggetti coinvolti nella lettera di cambio sono tutti mercanti-banchieri italiani. Interviene anche una banca pubblica, gestita dall’amministrazione di Barcellona, piazza mercantile molto evoluta.

Ma il sistema creditizio era a disposizione di imperatori, re e altre autorità territoriali, che si rivolgevano ai mercanti banchieri per ottenere cospicui prestiti per trasferire il proprio denaro in uscita e in entrata.

Nell’ambito della Guerra dei Cent’anni, il re di Inghilterra si fece prestare somme assai ingenti dai mercanti italiani – i Bardi e i Peruzzi –  e non riuscì a rimborsare. Così nel 1343-45 quei banchi fiorentini fallirono senza alcuna via di scampo: non esisteva il welfare state per lavoratori e aziende. Oggi lo Stato interviene in molti modi per orientare l’attività di grandi istituti finanziari e aziende pubbliche e private, intervenendo in caso di crisi o fallimento o creando organismi di controllo e riequilibrio del mercato, ma soprattutto perché i governi non possono disinteressarsi del destino dei lavoratori. Oggi ogni aspetto dell’attività economica è regolamentato da norme statali o interstatali (contratti di lavoro, norme di sicurezza, diritto commerciale).

Tuttavia il sistema non crollò e furono individuate le soluzioni per prevenire casi analoghi, come la separazione delle sedi, in modo che il fallimento di una sede non coinvolgesse la casa-madre.

Tutte le guerre scopiate fra il XIII e il XV secolo sono state finanziate dai mercanti-banchieri, gli unici ad assicurare un servizio efficiente di prestiti e di trasferimenti di denaro. Il sistema bancario era una “sovrastruttura” indispensabile. Le molte aree non coperte nel Medioevo dalla rete delle banche erano escluse dai grandi commerci internazionali, restando a un livello economico molto inferiore.

I mercanti-banchieri (o meglio gli imprenditori) integrarono alcune regioni dell’Europa e del Mediterraneo creando un “sistema-mondo” organico, in cui i soggetti erano interdipendenti (questa è la definizione di uno studioso statunitense Immanuel Wallerstein).

Il mercante-banchiere del Basso Medioevo fu un innovatore dal punto di vista economico, mentale e soprattutto della cultura laica in volgare. Nelle loro città i mercanti organizzarono proprie scuole per l’istruzione primaria – leggere, scrivere e fare i conti – mentre la formazione tecnica avveniva mediante il tirocinio in un’azienda, dove i figli dei mercanti cominciavano a lavorare già a 10-12 anni.

Ad esempio Giovanni Boccaccio venne a Napoli per fare uno “stage” presso la banca Bardi.

I primi manuali di economia aziendale e di diritto commerciale sono stati scritti dai mercanti, che raccolsero nei “libri di mercatura” regole generali e dati particolari: su monete, cambi, usanze, fisco, merci e andamento dei mercati.

La ricchezza dei mercanti-banchieri italiani ha stimolato la produzione letteraria ma soprattutto ha conformato le istituzioni politiche e l’aspetto materiale delle città comunali. Le meravigliose architetture, le splendide opere d’arte delle città italiane testimoniano ancora oggi quali straordinarie ricchezze possedessero famiglie come i Medici e i Pazzi a Firenze.

Quando Dante lanciava le sue invettive contro Firenze “donna di bordello” non accettava i disordini della città in quanto segno di decadenza morale, ma non erano segno di decadenza economica. Gli scontri erano feroci perché la posta in palio era cospicua. Controllare Firenze significava avere il controllo finanziario del mondo di allora, come sapeva Bonifacio VIII, il quale, nominò paciere Carlo di Valois contro i Bianchi. Carlo Valois chiese a Bonifacio VIII un sussidio economico e Bonifacio VIII rispose che aveva messo Carlo “nella fonte dell’oro”.

[1]     L’arazzo di Bayeux, noto anche con il nome di arazzo della regina Matilde e anticamente come Telle du Conquest, è un tessuto ricamato (non un vero e proprio arazzo a dispetto del nome corrente), realizzato in Normandia o in Inghilterra nella seconda metà dell’XI secolo, che descrive per immagini gli avvenimenti chiave relativi alla conquista normanna dell’Inghilterra del 1066, come la battaglia di Hastings. Circa la metà delle immagini rappresenta inoltre fatti precedenti l’invasione stessa.

Benché favorevole a Guglielmo il Conquistatore al punto da essere considerato talvolta un’opera di propaganda, l’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito di varie pezze per una lunghezza totale di 68,30 metri, era conservato sino alla fine del XVIII secolo nella collezione della Cattedrale di Bayeux ed è attualmente esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant di Bayeux.[1]

Nel 2007 l’UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo.

[2] Alfredo il Grande (in inglese antico: Ælfred; Wantage, 849 – 26 ottobre 899) è stato re del regno anglosassone occidentale del Wessex dall’871 all’899, ed è venerato come santo dalla Chiesa cattolica.

Alfredo è famoso per la sua difesa del regno contro i Danesi (Normanni), grazie alla quale fu l’unico re inglese ad avere ottenuto l’epiteto di “Grande”. Fu anche il primo re del Wessex a chiamarsi “re d’Inghilterra”. Le notizie sulla sua vita ci sono pervenute soprattutto grazie all’opera dello studioso gallese Asser. Condusse una lunga guerra contro i Danesi che avevano occupato le regioni centrorientali dell’Inghilterra e li sconfisse nella battaglia di Ethandun nell’878.

Da quell’anno divenne re degli Anglosassoni. Uomo colto, Alfredo incoraggiò l’istruzione e migliorò il sistema di leggi dello stato (Doom Book). Per questo fu detto “il Giustiniano inglese”. Alfredo favorì lo sviluppo della cultura traducendo o facendo tradurre dal latino testi di teologia e di storia. Egli stesso contribuì alla stesura della Cronaca anglosassone, il primo documento di storia scritto in inglese antico. Inoltre, fece costruire la prima flotta da guerra inglese.

[3] I domini longobardi al termine del Periodo dei Duchi (584)

[4] I domini longobardi dopo le conquiste di Astolfo (751)

[5] Il capitolare (capitulare deriva da capitulum, “diviso in capitoli”), tipica disposizione legislativa emanata dai Carolingi. Carlo Magno aveva ambizioni di consolidamento del potere regio e fini unificatici. Proprio queste numerose ordinanze, i capitolari, regolamentavano in modo unitario i vari aspetti della vita dell’impero. Capitolari famosi sono:

  • Capitulare de villis, emanato da Ludovico il Pio: regolava l’amministrazione delle proprietà fondiarie appartenenti all’imperatore;
  • Capitolare di Quierzy, emanato da Carlo il Calvo nel 877: stabiliva per la prima volta, anche se con limitazioni o meglio la possibilità, il diritto dei conti e dei vassalli imperiali di trasmettere funzioni e benefici ai propri figli

[6] L’omaggio vassallatico-beneficiario

[7] Cattredrale di Chartres (1194-1260)

[8] Espansione dall’Islam tra VII e VIII secolo

     Espansione sotto il profeta Maometto, 622-632

     Espansione durante il califfato elettivo, 632-661

     Espansione durante il califfato omayyade, 661-750

[9] Milano al tempo di Barbarossa

[10] La crociata dei poveri (anche crociata dei pezzenti) fu un insieme di spedizioni non coordinate che presero parte alla prima crociata.

Nel maggio 1096, assai prima della data che il papa aveva previsto, gente d’ogni sorta (poveri, preti, monaci, donne, soldati, signori e perfino principi) si mise agli ordini di Pietro d’Amiens e si pose in viaggio: sarebbe arrivato a Costantinopoli il primo agosto, cioè 15 giorni prima della data fissata per la partenza da Le Puy della crociata ufficiale. Questa crociata è anche famosa per il motto che il suo stesso promotore, Pietro, le aveva dato: Deus lo volt (“Dio lo vuole”); Pietro affermava infatti di essere stato mandato direttamente da Gesù Cristo.

La crociata “dei poveri” (in contrapposizione a quella “dei nobili”, organizzati militarmente) fu effettivamente la prima crociata della storia anche se gli storici moderni, sia per lo scarso successo e sia perché non fu mai ufficializzata dalla Chiesa di allora, la considerano un’avanguardia della prima crociata. Queste forze, tese allo scontro con i turchi selgiuchidi in Asia Minore, avevano risposto spontaneamente all’appello di Clermont di papa Urbano II del 1095. Alcuni storici, come Franco Cardini,[1] parlano di “crociate dei poveri” a sottolineare come questo movimento fosse frammentato e molteplice.

[11] Replica del Cavaliere di Magdeburgo, monumento equestre tradizionalmente considerato una raffigurazione di Ottone

[12] Anonimo, Ottone I incontra Giovanni XII, Laboratorio di Diebold Lauber, 1450.

[13] L’indizione è un computo del tempo che non ha alcuna relazione col movimento degli astri. Essa è parte della Data nei documenti della tarda antichità, medievali e, in alcuni luoghi, moderni: indica l’anno all’interno di un ciclo di anni numerati progressivamente da 1 all’ultimo anno del ciclo a conclusione del quale il conto riprende da 1, ossia il primo anno del nuovo ciclo. Siccome l’Indizione giunge nell’epoca moderna basandosi su un ciclo quindicennale di anni, comunemente con la parola Indizione si indica, appunto, il detto ciclo quindicennale per cui, applicando i disposti enunciati nel periodo precedente, gli anni di tale ciclo sono numerati progressivamente da 1 a 15 e a conclusione del detto ciclo il conto riprende da 1 essendo iniziato un nuovo ciclo.

Il termine indizione deriva dal greco Ινδικτιών, Indiktion, digitazione fonetica Indiktión. Nei calendari liturgici ortodosso e greco-cattolico designa l’inizio dell’anno ecclesiastico, lndiktos, il 1º settembre

[14] Statua di Federico II all’ingresso del Palazzo Reale di Napoli

[15] Nascita di Federico II a Jesi, in una tenda, secondo una «fantasiosa tradizione». dovuta a Ricordano Malispini.

[16] Le Costituzioni di Melfi (dette anche Liber Augustalis) costituiscono una, forse la più proficua, fra le manifestazioni della cultura di Federico II di Svevia. Esse furono promulgate nel 1231 dall’imperatore svevo nella città di Melfi e raccolte nel Liber Augustalis. Le Costituzioni, che si ricollegano per molti aspetti alle precedenti Assise di Ariano di epoca normanna, prevedono norme e leggi che regolamentano il vivere comune nel regno di Sicilia

[17] Penitenziali sono i manuali destinati a confessori con un catalogo di pene e penitenze. Le fonti religiose sono indagate dalla Storia del Cristianesimo: interesse per la religione cristiana (interpretazione, diffusione, messaggio evangelico ecc.) e istituzioni ecclesiastiche (organizzazione della comunità, definizione dottrina, eresia, diritto canonico ecc.)

[18] Coloro che sostenevano che il mondo dovesse essere governato da Dio (teocrazia) o meglio dal sacerdos che lo rappresentava (ierocrazia)

[19] Francesco di Marco Datini (Prato, 1335 – Prato, 16 agosto 1410) è stato un mercante italiano, detto spesso il Mercante di Prato. La sua importanza è legata al ricchissimo archivio di lettere e registri da lui lasciato e ritrovato nel XIX secolo in una stanza segreta del suo Palazzo e che oggi consente di analizzare compiutamente la vita e gli affari di un mercante operante nella seconda metà del XIV secolo.

A causa del notevole numero di lettere di cambio presente in tale archivio, egli è generalmente ritenuto l’inventore dell’assegno; secondo alcuni studiosi del periodo storico in cui visse, risulterebbe invece più corretto riconoscergli un largo uso, unico per l’epoca e quindi moderno, della lettera di cambio, piuttosto che attribuirgliene l’invenzione vera e propria. È a lui attribuita l’invenzione del sistema di aziende.

A questo proposito, molti ritengono che la lettera di cambio fosse l’antenata della cambiale: in realtà tale lettera permetteva al possessore di ricevere, presso una banca designata sulla lettera, l’equivalente della somma indicata nella lettera. Tale funzione si addice più propriamente ad un assegno.

A fine Trecento nella corrispondenza commerciale di Francesco Datini appare il segno della @ commerciale, volgarmente definita come chiocciola(segno).

l padre di Francesco, Marco Datini, era un modesto oste, rimasto vittima della peste nel 1348, assieme alla moglie Vermiglia ed a due figli. Francesco ed il fratello Stefano, gli unici sopravvissuti della famiglia, vennero accolti da una brava donna, Piera Boschetti, che li allevò.

Circa un anno dopo la morte del padre, Francesco andò a lavorare come garzone presso due mercanti di Firenze. Lì imparò i rudimenti del commercio. Sempre a bottega, ebbe modo di capire le possibilità che Avignone, allora sede del Papato, offriva alle persone ambiziose ed abili negli affari. A quindici anni, con in tasca i centocinquanta fiorini ricavati dalla vendita di un podere ereditato dal padre, si trasferì proprio nella città provenzale, che stava vivendo il suo periodo più fulgido.

Sul primo periodo vissuto ad Avignone non ci sono documenti, fino al 1363, quando risultava associato in posizione subordinata in alcune compagnie. Nel 1373 fondò un’azienda individuale facendo fortuna; nel 1376 sposò, Margherita di Domenico di Donato Bandini, una giovanissima fiorentina: lui era quarantunenne e lei sedicenne[2].

Alla fine del 1382, dopo che nel 1378 la sede del papato era stata riportata a Roma, il Datini decise di rientrare in patria. Nel fortunato prosieguo delle sue molteplici attività mercantili furono molto utili i numerosi rapporti con mercati della Francia, del Mediterraneo e delle Fiandre.

Impiantò manifatture a Pisa, e poi a Prato, Genova, Barcellona, Valenza, Maiorca, occupandosi prevalentemente di produzione e commercio tessile. Lasciò in funzione anche la vecchia sede di Avignone. La direzione generale di tutto il sistema era a Firenze, dove nel 1398 fondò la Compagnia del banco, forse il primo esempio di un’azienda bancaria autonoma.

A Prato, dopo il suo ritorno, diede inizio alla costruzione di un palazzo, arricchendolo di affreschi commissionati ai migliori maestri di Firenze. Più tardi costruì anche una residenza extraurbana, la Villa del Palco.

Negli anni seguenti ricoprì anche incarichi pubblici nel Comune di Prato (Consigliere e poi Gonfaloniere di giustizia) anche se il Datini preferiva la cura degli affari che seguiva di persona. La sua ospitale residenza di Prato ricevette negli anni visite illustri, come Francesco Gonzaga, Leonardo Dandolo, ambasciatore di Venezia, e il re Luigi II d’Angiò, di passaggio a Prato, che gli concesse di fregiarsi del giglio di Francia nello stemma.

Francesco Datini morì, senza figli, il 16 agosto 1410, e lasciò tutti i suoi beni ai poveri istituendo, a tale scopo, il “Ceppo dei poveri”. Si trattava di un capitale enorme, di circa centomila fiorini d’oro (oltre a 420 “ville”), con cui diede vita una delle tre principali istituzioni ospitaliere cittadine, il Ceppo Vecchio, con il Ceppo Nuovo e l’ospedale di San Silvestro o di Dolce, risalenti pure a quegli anni. L’istituzione operò fino ai gravi saccheggi del Sacco di Prato (1512), finendo per essere abolita da Cosimo II de’ Medici. Una piccola parte dell’eredità Datini venne anche impiegata per la creazione e per il sostentamento, tramite un vitalizio annuo, di un ospedale per gli orfani a Firenze, noto dalla sua fondazione come Spedale degli Innocenti. Si trattava di una istituzione che in Europa ancora non esisteva e che il Datini volle fosse realizzata in base ad una sua idea.

Venne sepolto nella chiesa di San Francesco sotto una lastra tombale ancora esistente, opera dello scultore fiorentino Niccolò di Pietro Lamberti.

Lo straordinario archivio di Datini venne murato in un pozzo di scale in disuso e ritrovato solo nel XIX secolo. Si trattò di una scoperta sensazionale, per la ricchezza, la completezza e lo stato di conservazione dell’archivio: lettere, documenti, libri contabili e vari oggetti della vita aziendale, tra cui uno dei più antichi esempi di campionario tessile. Esso rappresenta con i suoi centocinquantamila testi il più importante archivio mercantile medievale, fondamentale fonte di informazione sulla vita economica del Trecento, ed offre anche un interessante spaccato di vita del medioevo, grazie alle oltre duecentocinquanta lettere che si scambiarono Francesco e sua moglie Margherita durante i suoi lunghi periodi di assenza da casa.

Attualmente l’Archivio Datini, a Palazzo Datini, rappresenta uno dei nuclei storici dell’Archivio di Stato di Prato ivi costituito.

A Francesco Datini nella provincia di Prato è dedicata una scuola intitolata “Istituto Professionale Statale Francesco Datini”

La sua statua, mostrata in foto, opera di Antonio Garella ed eretta nel 1896 in piazza del Comune, che secondo il comune sentire dei pratesi mostrerebbe nella mano sinistra le cambiali, appunto, proferirebbe a noialtri piuttosto il suo benefico testamento di 70.000 fiorini, a favore del Ceppo vecchio, pia istituzione dell’epoca a favore dei poveri.

…nel nome d’Iddio e del quattrino … celebre frase attribuita a Datini

[20] Nei manoscritti e nei primi libri a stampa si numerava generalmente soltanto la pagina di destra. Il retro (o verso) della carta non aveva un numero proprio. Per questo un manoscritto di 2’’ carte contiene in realtà 400 pagine.

Per distinguere le due pagine con lo stesso numero si aggiunge al numero la parola latina recto, abbreviata in r, per la pagina davanti;

Per la pagina di dientro, verso o v, indicata anche con t (tergo)

[21] Sotto Carlo Magno, tra il 781 e il 795, fu attuata una vasta riforma monetaria per cui da una libbra d’argento furono coniati esattamente 240 denari di un’ottima lega[1].

Questa riforma, che era stata iniziata da Pipino il Breve, padre di Carlo Magno, prevedeva un’unica moneta legale e il “monometallismo argenteo”[1]. Questo significa che veniva creato il denaro, moneta che non aveva né multipli né sottomultipli. Il denaro era di argento, e quindi nel sistema previsto dalla monetazione carolingia non esistevano altri metalli.

Questo sistema monetario ha regolato la coniazione in Europa per molti secoli, fin quando la rivoluzione francese e gli avvenimenti ad essa collegati, portarono all’affermazione del sistema decimale; fenomeno che non toccò la Gran Bretagna fino al 1971.

Il fatto che il denaro non avesse né multipli né sottomultipli era ben accetto in un’economia non molto sviluppata dove gli scambi commerciali erano spesso basati sul baratto[2], o dove il denaro veniva utilizzato per integrare gli scambi avvenuti tramite il baratto[3]. Non essendo prevista la coniazione di alcun multiplo del denaro, dall’uso quotidiano nacque una soluzione spontanea: siccome da una libbra (peso) si otteneva alla zecca 240 denari, si iniziò a far equivalere 240 denari a una “lira” (unità di conto).

Il denaro è stato la moneta più importante del Medioevo. La libra da sola unità di peso (allora di circa 409 g) diventò così anche un’unità di conto. Come anche il soldo (dal valore di 12 denari, quindi di un ventesimo di lira) per molto tempo la lira non fu coniata e rimase una mera unità di conto.

Per oltre cento anni il denaro mantenne inalterato peso e lega. I primi slittamenti iniziarono nel X secolo. I primi Ottoni (961-973 e 973-983) misero ordine nel sistema consacrando lo slittamento del denaro in termini di peso e di fino: una “lira” (ossia 240 denari) passò da g 410 a g 330 di una lega argentea peggiore (da g 390 di argento fino a g 275).

La denominazione nelle varie lingue:

italiano: 240 denari = 20 soldi = 1 libbra

francese: 240 denier = 20 sol (plurale sous) = 1 livre

catalano: 240 diners = 20 sous = 1 lliura

latino: 240 denarii = 20 solidi = 1 libra

tedesco: 240 Pfennig = 20 Schilling = 1 Pfund

inglese: 240 penny (pl. Pence)= 20 shilling = 1 pound

In Gran Bretagna questo sistema monetario si è mantenuto fino alla decimalizzazione del 1971. Dalle iniziale dei nomi latini (Libra, Solidus, Denarius) venne anche denominato “LSD-System”.

Dalla libra intesa come unità monetaria, deriva il nome della lira, la moneta circolante in Italia prima dell’avvento dell’euro.

 

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