L’anno scorso ero alla fermata ad aspettare il bus, da solo. Era maggio.
Dopo diversi minuti vedo avvicinarsi da lontano una ragazza carina coi capelli rosso scuro e un abbigliamento interessante, anche se ora non ricordo precisamente come fosse vestita. Si avvicinò fino a fermarsi ad alcuni mentri da me. Ascoltava musica dalle cuffiette e aveva l’aria di chi non vuol essere disturbato, o almeno così interpretai la sua espressione.
Desideravo parlarle, ma non sono bravo ad approcciare, quando mi venne in mente che avevo davvero bisogno di un’informazione: non sapevo quando sarebbe passato l’autobus diretto al mio paese. Così, sentendomi legittimato dal fatto che avevo bisogno di chiederlo a qualcuno e che non si sarebbe trattato solo di una scusa per avviare una conversazione, l’ansia si è alleviata e ho trovato il coraggio di rivolgerle la parola.
In verità non seppe rispondermi, perché lei era diretta da tutt’altra parte, però iniziammo a conversare – principalmente di università – e mi sembrava che le avesse fatto molto piacere averle rivolto la parola. Ci furono vari sorrisi da parte di entrambi.
Poi arrivò, per primo, il suo autobus e dovemmo salutarci. Mentre si dirigeva verso lo sportello pensavo che avrei dovuto chiederle il nome, sarebbe bastato un semplice “Ehi, non mi hai detto come ti chiami…”, ma non pronunciai quelle parole, e il motivo per cui non l’ho fatto non è stato la poca intraprendenza, tutt’altro, anche se non saprei dire precisamente cosa. Forse un perverso romanticismo.
Si voltò verso di me mentre saliva sul mezzo, sembrava proprio dirmi con lo sguardo “Avanti, che aspetti a chiedermelo?”. Invece la fissai, le feci un sorriso compiaciuto e la lasciai andare via.
Era un venerdì pomeriggio, il tutto avvenne, mi pare, tra le sedici e le sedici e dieci, forse un quarto. E a dirla tutta, pensai che solo se l’avessi ritrovata lì, allo stesso posto e alla stessa ora, il venerdì seguente, le avrei chiesto il nome.
Così una settimana dopo percorsi apposta in auto quella ventina di chilometri che saperavano la mia abitazione dalla suddetta fermata del bus. Parcheggiai la macchina da qualche parte lì intorno e mi recai al muretto vicino al quale parlammo – lei in piedi, poggiata con la schiena, io seduto – sette giorni prima. Mancavano forse una quindicina di minuti alle sedici. Aspettai lì all’incirca tre quarti d’ora, ma la ragazza dai capelli autunnali non venne. Probabilmente non aveva avuto corsi quel giorno, diversamente dalla settimana prima.
Io non vado quasi mai in autobus, pensai, perché sono solito accompagnarmi con la macchina.
Mi accesi una sigaretta e mi godetti il venticello di quel pomeriggio tardo-primaverile.
Lazzaro di Luciano