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Indice
1° Lezione: Vitam impendere vero?. 3
2° Lezione: Confronti fra Platone, Aristotele, Nietzsche, Rousseau, Kant 20
3° Lezione: Il “Nulla filtra”. 29
4° Lezione: Aforisma n°334 della Gaia Scienza. 34
5° Lezione: La capacità prestigiatrice dell’Intelletto. 38
6° Lezione: Si deve volere l’illusione. 43
7° Lezione: Friedensschlus, il Mentitore, l’arbitrarietà del linguaggio. 49
8° Lezione: La formazione del concetto come obliante uguagliare il non-uguale. 56
9° Lezione: Il “sentimento della verità” come moto morale. 60
10° Lezione: L’uomo è misura di tutte le cose?. 70
11° Lezione: L’Uomo Intuitivo e l’Uomo Razionale. 79
1° Lezione: Vitam impendere vero?
Vitam impendere vero?[1] Questo è il tema del Corso di Storia di Filosofia Morale, tenuto dal professore Felice Ciro Papparo[2].
Cosa è la Verità? Chi dice la Verità? Chi è in possesso della verità? È necessario sacrificare la vita per il vero? Abbiamo la necessità di intendere la vita al vero?
Chi ha inteso questo rapporto, fra Vita e Verità, come indissolubile? Uno degli intellettuali più importanti ad aver consacrato la Vita alla verità è stato Leopardi (per la possanza, la potenza e il massiccio del vero).
Impendere[3], in latino, ha vari significati: 1) consacrare; 2) estendere; 3) appendere; 4) sborsare;
Tornando alla questione della Verità, riprendendo una famosa frase attribuita ad Aristotele: << Amicus Plato, sed magis amica veritas >>[4] oppure l’altra versione << Amicus Plato, amicus Socrates, sed prehonoranda veritas >>.
La traduzione della 1° frase è: << Sono Amico di Platone, ma sono maggiormente amico della Verità >>. Aristotele , nell’ Etica Nicomachea (I, 4, 1096 a 16), afferma: << Pur essendoci care entrambe le cose, gli amici e la verità, è dovere morale preferire la verità >>. La frase indica che, Aristotele, nonostante apprezzasse l’amicizia, non avrebbe rinunciato per amore della verità a criticare quelle dottrine che la mettessero in dubbio. Insomma la preferenza della Verità è dovere morale per Aristotele.
Preferire, insomma, comporta una scelta. Ma che dovere morale ha chi preferisce la Verità? Che dovere morale ha chi ha la “possenza” della verità? Di solito la tradizione filosofica ha inteso il “filosofare” come un andare alla caccia della Verità. Ad esempio la concezione del Tempo di Sant’Agostino[5] si potrebbe connettere al discorso della Verità.
La Menzogna è presente anche quando c’è Verità: insomma la Verità non è mai sola o assoluta o sciolta da tutti i legami. Il passaggio successivo è, ovviamente, il dubbio. Pertanto conseguire la Verità diventa un dovere morale. La “Divisa del Filosofo” è il Dovere Morale della Verità. Il Filosofo cerca di indossare “moralmente” la Verità.
Preferire significa “patire”: è il Pathos della Verità, direbbe Nietzsche o meglio un suo testo. Ma come bisogna intendere la preferenza per il Vero? Bisogna intendere questa preferenza come una necessità? Bisogna considerare questa preferenza come una costrizione? Il dovere morale è una posizione paradossale in quanto caccia alla verità. Questa “preferenza morale per la verità” rimane piena di ambiguità.
Riprendendo Heidegger la Licthung[6] è la “Radura dell’Essere”, è la parte disboscata di un bosco, vera metafora della pratica o ricerca o “caccia” alla verità. La radura è uno spazio improvviso della foresta, in quanto è disboscata e priva di ostacoli. Quindi la “Radura”, intesa come Verità, è lo spazio in cui la Verità è svincolata dai suoi limiti, dai suoi ostacoli, dai suoi alberi di contorno.
Impendere ha molti significati in latino: 1) spendere; 2) sborsare; 3) impiegare; 4) consacrare; 5) sacrificare; 6) mettere a morte; 7) uccidere.
Riprendendo il verso di Giovenale (tema del corso) si aprono vari scenari per spiegare il Vitam impendere vero?:
- (1) Spendere, sborsare e sprecare: spendere la Vita per la Verità. Significa mettere in gioco o in campo tutte le proprie energie vitali. È quasi come se fosse che la Verità è qualcos’altro dalla vita.
- (2) Consacrare: consacrare la Vita alla Verità. Ha quasi un’assonanza con la vita monacale. Consacrarsi al vero, significa spogliarsi della propria Vita, sospendendosi e si guarda alla glorificazione della vita, donando tutto se stesso alla Verità e possibilmente all’Altro.
- (3) Impiegare: impiegare la Vita in nome della Verità. Significa impiegare le proprie forze e canalizzare tutte le energie vitali verso la verità. (1) e (3) sono simili.
- (4) indichiamo la scelta di Schopenahauer e vari autori di dedicarsi soprattutto a (2). Significa stabilire la posizione del soggetto rispetto al vero, e poi preferire la Verità, che diviene la divisa del Sé
- (5) Sacrificare, mettere a morte, uccidere: mettere a morte la verità. Si sacrifica la “Verità” quando ci si immola, considerando la propria vita sacra e in direzione dell’Altro (gli altri, un Grande Altro o Dio).
Per quanto riguarderà Rousseau, sarà fondamentale la sua paranoia, il suo presentarsi agli altri intus et in cute, la sua critica alla società, la sua ricerca dei “Cuori Sensibili e Ardenti”, che ci permetterà di focalizzare come il filosofo ginevrino intendi la Verità.
Chi preferisce una vita conveniente, una vita diversa da lotte e contenziosi, non è un pensiero esposto alla verità. Sacrificarsi al vero è un pensiero liberamente espresso: è un andare contro-corrente. Questo è il significato della parresia: è dire con franchezza il proprio pensiero. È pensare in maniera autonoma.
Il parresiasta è colui che considera la propria vita in una posizione di “indipendenza” o di autonomia, e non come la coppia fenomenologica alla base della filosofia di Hegel. Sacrificare la propria vita al vero potrebbe significare la libertà di pensare in proprio e di manifestarlo, soprattutto assumendo un rischio.
Ad esempio il “Solito vero” di Leopardi è l’insistente illusione di andare oltre la collina, in quanto è intesa come una “franca illusione”.
Ma prendiamo la Verità da un altro punto di vista. Di solito ciò che è vero è condiviso da tanti. Ma come si fa ad essere certi o veri di qualcosa? La verità può avere a che fare con la certezza. Il certo è il risultato del dubbio. Quindi la verità sarebbe l’effetto dell’esperienza riguardo al dubbio, conseguendo o attraversando il rischio della certezza. La certezza, in quanto verità, significa “vedere” tutti quanti la stessa cosa. Ovverossia la certezza è frutto di un accordo intersoggettivo, in modo tale da divenire una “prospettiva” comune. Ricerca la Verità, affermare la Verità, implicherebbe un’assoluta solitudine. Ad esempio possiamo capire questa situazione riferendoci alla presunta “solitudine” delle Monadi. Le Monadi hanno in sé tutta le capacità di cui esse sono, ma non sono delle “monache”. Le monadi sono connesse senza saperlo ad altre monadi. Insomma noi siamo “corpi” o “monadi” che si mettono in contatto, che si mettono in relazione, a volte senza nemmeno saperlo. Noi riteniamo che la ricerca della Verità sia solitaria, ma non è isolata. Difatti è una “missione intersoggettiva”. Ripercorrere la “via parmenidea” è in realtà “essoterica”, anche se le modalità sono “esoteriche”, in modo diffondere la Verità e non le Menzogne.
Quindi dobbiamo intendere l’equivalenza (Vero = Vita) in termini assoluti?
La Verità oltrepassa ogni singola vita che la enunci o lotti per la verità stessa. Coloro che ambiscono a proferire Verità ambiscono a due atteggiamenti paradossali:
- Da una parte tutti sono coerenti con l’idea di poter fare tutt’uno con la Verità, di identificarsi con la Verità, non ammettendo il contrario;
- Da un’altra parte tutti sono contraddittori poiché manifestano posizioni verbali diverse;
Questo è il piano del linguaggio: un medium contraddittorio senza di cui non si pensa o non si ragiona. Insomma ribaltando la frase “Vitam impendere vero?” possiamo dire: <<Servo è colui che conserva la vita non sacrificando la propria vita in nome della verità >>. È così davvero?
Ritornando a Rousseau un termine fondamentale è “Riconoscimento”. Rousseau ricerca in modo angoscioso la propria identità, tentando di difendersi dalla doxa degli altri. Ovviamente porsi contro l’opinione comune significa non assumere uno stile di vita comodo, “pigro” o vile. Questi sono i connotati “critici” del parresiasta. Sembra quasi che ci richiamiamo al motto del Sapere Aude di Kant, di una vita lontana dalla pigrizia e paura, rivolgendosi a una vita intersoggettiva. La scelta del soggetto rivolta verso un’autonomia assoluta per il vero è totalmente contraria ad una vita comoda, pigra, rivolta alla conservazione. La lettura pubblica delle Confessioni di Rousseau si pone nettamente contro il gruppo illuminista. Rousseau aveva ben in mente l’espressione di Giovenale, dato che gli era cara. La sua modalità di scrittura è quella di “siglare” un “Patto con il lettore”: questa è la strategia scritturale di Rousseau. L’idea di Rousseau è di far prevalere la Verità ottenendo il Riconoscimento sociale degli Altri, o meglio ancora ricercando dei “Cuori Sensibili e Ardenti”.
Rousseau mostra purezza di intenzioni e disinteresse, difatti, Rousseau ricerca la “Trasparenza dei Cuori” e vorrebbe valicare gli “Ostacoli della Società”. Il suo sacrificio passa sul disinteresse. Rousseau proverà a non sedurre l’altro. La scrittura è rivolta all’altro. Rousseau non contemplerà mai, secondo le sue intenzioni, il concetto di utilità performativa, ma ricercherà solo una valenza intersoggettiva. È una scrittura che tenterà di mostrare il proprio Sé in quanto nudo: intus et in cute. Dopo le tante denigrazioni ricevute, Rousseau ha esigenza del riconoscimento e di relazionarsi all’Altro. Perciò Rousseau sostiene il motto di Vitam impendere vero: è un motto per cui andare degni. Significa assumere una posizione di dovere morale: significa dimostrarsi disinteressati, con l’unico intento di consacrare al sacrificio la propria vita, “spendendola” per la verità. Il patto con il lettore ha la finalità di asserire l’impossibilità di ingannare il pubblico, il voi. Il patto con il lettore si basa sul preferire la verità. Questo patto con il lettore si pone nella dimensione di un possibile trasferimento di significati, ritenuti da Rousseau come puri e disinteressati. Questa è un tipo di concezione trasmissiva della verità, che deve anche valicare i confini della relativizzazione del linguaggio. Il patto con il lettore comporta una sorte di credenza, di fede nel patto con l’Altro: tutto si baserebbe sulla fiducia, sulla credenza e la fede.
Rousseau affermò, nel contesto delle Confessioni, di scrivere contro il suo interesse, di scrivere per l’altro e non per lui. Però questo tentativo fallisce e pertanto Rousseau correrà in difesa di J-J. Il patto con il lettore può far sorgere il malinteso, dato che si concede credito reciprocamente si possono aprire i rischi del malinteso. L’obbiettivo di Rousseau è mostrare J-J come trasparente ed identico a sé stesso, ovvero, essere coerenti.
Rousseau, insomma, cerca di dimostrarsi come vittima del male fattogli, e ricercare una sacra e autentica libertà. Questa sacra e autentica libertà corrisponde ad un’autentica e sacra verità. La libertà di Rousseau è quella di esprimersi liberamente intus et in cute in modo da risvegliare i Cuori degli Altri, dimostrando amore per l’Altro e per la Verità. L’espressione di Giovenale, da parte di Rousseau, viene curvata nell’autenticità e sacralità della verità sul Sé. Insomma Rousseau cerca di ricercare un’innocenza strutturale, ovvero lo stato di Natura, che ognuno ha per sé prima di entrare in relazione con il Sé, gli Altri e la Società. Rousseau vorrebbe restaurare la dimensione dell’innocenza nello stato del palcoscenico del Mondo e della Società.
Qui inizia la celebre distinzione fra Amor di Sé e Amor Proprio:
- Con l’Amor di Sé intendiamo lo stato “sentimentale” di Natura, che corrisponde ad uno stato pre-morale, in cui l’Uomo di Natura non conosce male o bene. Quindi l’Uomo di Natura tende a vivere in solitudine di sé con sé;
- Con Amor Proprio indichiamo lo stato “passionale” in cui l’esigenza di riconoscimento dell’Uomo Sociale ricerca una continua attestazione da parte degli altri. Qui l’Uomo Sociale mette in discussione il Sé, mettendo al primo posto l’Ego al Sé. Insomma l’Uomo Sociale è in piena esibizione di Sé con gli altri, e fa dipendere le proprie passioni dalla doxa sociale (è proprio questo non piace a Rousseau: far dipendere la propria emotività in base all’opinione degli altri!);
Questa è la “paranoia” e delirio di Rousseau: nel suo intimo Rousseau si considera innocente (connettendosi all’innocenza dell’Uomo di Natura, difatti, Rousseau pensa di essere un Uomo di Natura), anche se per alcuni di questi motivi Rousseau tende a giustificarsi (ad esempio l’abbandono dei propri figli).
E Nietzsche? Prendiamo un brano di Nietzsche, precisamente l’aforisma n. 25 di Al di là del bene e del male (Capitolo secondo: Gli Spiriti liberi. Pagina 31, edizione Adeplhi) [7]. Nietzsche invita i “filosofi” a tenersi lontani da un atteggiamento di martirio, o di amore della verità, o di difesa di se stessi. Difendere se stessi significa corrompere ogni innocenza, significa diventare caparbi intestardendosi come dei tori. Insomma il sospetto e il rifiuto degli altri verso ciò che pensiamo sia vero ci fa assumere la pare dei “difensori della verità”. Ma questo è davvero irrisorio per la Verità stessa, che non ha alcun bisogno della nostra difesa. Nietzsche può avere in mente proprio Rousseau in questo passo, dato che Nietzsche lo considerava un campione del risentimento.
Chi difende se stesso, chi fa martirio di sé, chi sacrifica tutto per l’amore della verità in realtà è “un signore parassita” e un “tessitore di ragni dello spirito”. Questo è dovuto al fatto che nessun filosofo ha avuto ragione su questa questione. Difatti un presunto filosofo scambio il proprio pensiero autonomo con la verità stessa, diventando caparbio e quasi “cieco”. Mai nessuno filosofo ha avuto ragione e possiede una lodevole veridicità. Quindi questi “caparbi filosofi” inseguono solo la solitudine, non accettano di mettersi in gioco confrontandosi con altri, insomma diventano dei “ripudiati della società” (come Giordano Bruno e Spinoza), facendo perdere ai filosofi qualsiasi senso di comicità ma facendogli assumere soltanto una stupida “indignazione morale”.
Nietzsche tende a mostrarci i punti “aporetici” di chi si fa “Apologia della Verità”. Il campo della veridicità non ha bisogno di difensori della verità. Questa è solo una presunzione, non degna rispetto alla stessa verità. Questi “cavalieri della triste armatura”, coloro che difendono la Verità, vengono rifiutati da Nietzsche, in quanto viene messa in questione l’azione di “difendere la verità”, mentre, Nietzsche ricerca “un’affermazione della verità”. Qui Nietzsche riesce a dimostrare il campo “relazionale” della Verità. La Verità è in relazione alla Vita.
Il “Senso Extra-Morale” è data da una della verità, in cui la caccia alla verità passa per l’asserzione di un campo di veridicità, in cui la Verità è connessa alla menzogna e alla natura relazionale delle Verità e Vita, in cui possono sorgere dei malintesi. La Verità e la Menzogna sono la dimensione continua dei travisamenti, dei fraintendimenti, rivolti a conservare la Vita.
Per Nietzsche l’espressione di << Amico di Platone, ma maggiormente della verità >> indica gli ideali ascetici, di cui Nietzsche era un forte oppositore. Questi ideali ascetici rinviano ad un’alta dimensione, mentre, i filosofi non dovrebbero innalzare questa verità. Innalzare la verità in un’altra dimensione significa deterritorializzare la Vita e la Verità, perciò la Vita e la Verità sono in relazione fra loro. La verità non si dà da sé e non si dà come fede, ma la Verità si costruisce. La Verità è concepita come un fare, un agire. Tutto ciò implica che costruire un “sistema di verità” significa far incombere lo spettro della morte sulla Vita, insomma rischiando il campo della vita rischiamo anche il campo della veridicità. Nietzsche intende più la verità come un costruirsi nel dubbio, ovverossia, la verità è figlia temporis, si genera con il tempo.
Ritornando a Rousseau, l’Amor Proprio mette tantissimo in gioco la relazione con l’Altro per il riconoscimento sul palcoscenico della Società, alla ricerca continua dell’altro, dandosi, però, in un continuo fallimento comunicativo. Tutto ciò implica una “nocenza” nel Sé e nell’Altro, che non permette all’Io di riconoscere autenticamente l’Altro e il Sé. Rousseau ricerca o meglio sogna una comunicazione senza ostacoli nella sfera del sentimento, quindi, il filosofo ginevrino ricerca un’immediatezza del Sé rivolto all’altro. L’immediatezza, la trasparenza sono il campo della “Verità” per Rousseau: il campo della “Verità” è senza ostacoli e i Cuori comunicano immediatamente. La relazione con l’Altro, quella vera, si dà nel campo dell’immediatezza. Però questo “sogno” di una socialità di specchi tersi e innocenti non è possibile, perché non è possibile tra-sparire. Questo “sogno” per Rousseau corrisponde alla Comunità degli Amici, in cui lo spazio dell’intimo ha la sua ragion d’essere di apparire anche in pubblico. Per Rousseau la Sacra e autentica Verità, o meglio questo riconoscimento sociale inteso come battaglia per l’autenticità, concluderà nel momento in cui il suo Cuore sarà ascoltato da un altro Cuore.
2° Lezione: Confronti fra Platone, Aristotele, Nietzsche, Rousseau, Kant
La questione della Verità, e delle sue declinazioni, ovvero la veridicità e la veracità, si danno nella dimensione del dovere morale del filosofo. Questo è l’eredità delle frasi attribuite ad Aristotele. Ricordiamola: << Amicus Plato, sed magis amica veritas >> oppure l’altra versione << Amicus Plato, amicus Socrates, sed prehonoranda veritas >>.
Ricostruiamo la vicenda fra Platone e Aristotele. Il filosofo, inteso da Platone, però, ha la necessità di esaminare il senso del bene universale. Ciò significa che il bene universale è concepito avendo introdotto la dottrina delle idee. L’elemento problematico del rapporto Platone-Aristotele, fra maestro e allievo, è proprio la dottrina delle idee e le sue varie interpretazioni offerte dall’Accademia. Questo ha comportato le secessioni di Aristotele dall’Accademia e soprattutto dalle idee di Platone[8].
Aristotele, rifiutando la Dottrina delle Idee, preferisce salvaguardare la verità. Preferisce sacrificare se stesso in nome della verità, ovvero, in questo caso sacrifica la relazione maestro-discepolo per superarla. Questo sacrificio in nome della verità è fatto in quanto dovere morale di preferire la verità. È doveroso sacrificare qualcosa di nostro in nome della “Ricerca della Verità”. Quindi si incrociano due piani: la “Ricerca della Verità” del singolo e la Verità stessa. Insomma per “salvare” o “ricercare” la verità la personalità accetta la dissoluzione in nome di un ruolo supremo interpretato proprio dalla Verità. Ritorniamo al nostro motto: Vitam impendere vero?
Il registro della preferenza è soggettivo. Quindi ciò ci fa la questione: preferire la verità è un dovere morale? “Salvare” la verità significa sacrificare la Vita?
La risposta di Aristotele la conosciamo: preferire la “ricerca della verità” in quanto dovere morale del soggetto. Il dovere morale di preferire la verità elimina qualsiasi aspetto personale del soggetto. È giusto, è preferibile la Verità piuttosto che gli aspetti della mia Vita (nel caso di Aristotele è più importante la Verità che l’amicizia con il suo amatissimo maestro, ovvero Platone). La “ricerca della Verità”, in questo senso, ha qualcosa di sacro, di sacrale. La “ricerca della Verità”, intesa in questi termini, è procedure di valorizzazione sacrale della stessa Verità. Insomma la Verità acquisisce uno statuto di sacralità, quasi intangibile, da dover ricercare per dovere morale. Questa “ricerca della Verità” corrisponde, sul piano della Vita, a primi tre significati che abbiamo indicato nel tradurre impendere [(1) Spendere, sborsare e sprecare: spendere la Vita per la Verità; (2) Consacrare: consacrare la Vita alla Verità; (3) Impiegare: impiegare la Vita in nome della Verità]: si sacrificano elementi personali e si eliminano elementi personali in nome della Verità. Qui la Verità assume un valore assoluto, soprattutto per il “dicitore della Verità”, che preferisce, per dovere morale, salvaguardare la Verità in nome della stessa Vita.
Riprendiamo degli aforismi di Nietzsche della Genealogia della Morale (patire il soffrire per la verità) e in Aurora (“Vitam impendere vero?”)[9]. Il sacrificio personale alla verità manifesta una cerca magnanimità del pensatore. Ma Nietzsche non è d’accordo con il sacrificare la Vita in nome della verità, anzi, individua in Rousseau e Schopenhauer due “Presuntuosi e Orgogliosi”[10], criticandoli poiché loro due volevano impendere la Vita in nome della Verità.
Nietzsche non aveva una grandissima opinione rispetto a Rousseau: lo considerava orgoglioso. L’orgoglio è un’esibizione spasmodica, appassionata, spassionata del Proprio Ego e non del Sé. Per riprendere dei termini di Rousseau l’orgoglio è l’opposizione del Sé vitale e naturale. L’orgoglio è una delle “passioni velenose” dell’Amor Proprio. L’orgoglio e l’Amor Proprio vengono identificati come affermazione assoluta della propria personalità: è l’opposto del motto vitam impendere vero? Gli orgogliosi non sono riusciti a sacrificare il Vero rispetto alla Vita: questa è la dura accusa di Nietzsche a Rousseau e Schopenhauer.
La Vita e la Conoscenza e la Verità procedono parallelamente, secondo Nietzsche, e non si incontrano mai. Il basso lunatico (forse in riferimento a Rousseau), che non si vede accordare alla melodia. La vita non riusciva ad affermarsi, ma l’orgoglio non permetteva il sacrificio della Vita in nome della Verità. Per Nietzsche questo uso strumentale del concetto di Verità è davvero deleterio: la Vita non viene trasformata o sacrificata per la Verità al punto che chi si sacrifica per la Verità non riesce nemmeno a riconoscersi. Difatti Nietzsche accusava Rousseau di considerare l’altro solo in merito a una funzione di riconoscimento. Addirittura Rousseau, cercando continuamente di essere riconosciuto dall’Altro, soffre di Amor Proprio e assume una visione “strumentale” della verità. Questa visione “strumentale” della verità si avvicina alla “difesa del Proprio Io”, ciò che Nietzsche criticava nell’aforisma n. 25 di Al di là del bene e del male, considerando proprio chi “difende la Verità o se stessi” dei “cavalieri della trista figura”, “signori parassiti”, “tessitori di ragne dello Spirito”, dei “ripudiati dalla società”.
Nietzsche, insomma, riscontra un cortocircuito in Rousseau. Nella dimensione esistenziale, in cui chi vive, sceglie di sacrificarsi totalmente per la verità, non può essere “orgoglioso” o mostrarsi tale. Chi è orgoglioso con gli altri, ha un ego assoluto, e riconosce gli altri per il solo intento di far dominare il proprio Ego sugli altri. Insomma l’Altro è uno specchio che rifletto solo l’Io e mai l’Altro, insomma è la conferma dell’Ego Assoluto. Pensiamo un po’ a Narciso, ovviamente[11]. Rousseau, insieme a Schopenhauer, secondo Nietzsche, manifestano un orgoglio deleterio, cifra della propria filosofia e distorcente il discorso inerente alla Verità.
La verità per Nietzsche, nel caso di Vita impendere Vero?, è tale se mette radicalmente in causa la stessa Verità nel momento in cui viene eliminato qualsiasi dato contingente personale. Insomma per Nietzsche, se si vuole accettare la prospettiva di Vita impendere Vero?, è necessario accettare l’oggettività del Vero solo se si riesce ad eliminare o trascendere qualsiasi individualità del Proprio Sé, riuscendo a ricusare il Riconoscimento degli Altri dettato dall’Amor Proprio. È per questo motivo che Nietzsche rimprovera Rousseau.
Insomma il “quadro delle cose”, in quanto Verità, dovrebbe “trascendere” il “quadro della soggettività” o meglio dell’uomo. Il “Grande pensatore” è colui che dispone della più grandi delle virtù, dimostrandosi uomo della conoscenza, ma soprattutto sorridendo facendo “olocausto di Sé” in nome della ricerca della Verità, con sublime sarcasmo impavido. Per giungere a Vitam impendere Vero?, secondo Nietzsche, significa aderire alla figura del Filosofo (o del Grande Pensatore), che è in grado di sacrificare Sé e raggiungere Aristotele, che pur di essere amico della Verità, sacrifica la propria personalità e il passato di discepolo nei riguardi di Platone.
Questa dimensione esistenziale della “ricerca della Verità” significa “bruciare se stessi” per la Verità. Però Nietzsche manifesta una certa insofferenza o un costante scetticismo verso questa posizione esistenziale verso la Verità. Il “no scettico” di Nietzsche è un tentare di aderire a ciò che la realtà offre. Ovverossia il “no scettico” di Nietzsche non si spinge verso la “ricerca della Verità” ammantandosi del motto, Vitam impendere vero?, cioè, Nietzsche non si ammanta del “Vestito della verità”, che considera impossibile conseguire. Il riconoscimento da parte degli Altri, per Nietzsche, non deve darsi nella dimensione di essere riconosciuto semplicemente come un dicitore della verità, ma è un riconoscimento a partire dallo stesso Altro. Insomma Nietzsche non crede al “bruciare se stessi in nome della verità”, difatti, critica Bruno per essersi fatto bruciare per la Verità e contesta il pathos della Verità. Quindi Nietzsche si pone in un atteggiamento di sfida verso i filosofi, che hanno fatto del Vita impendere vero il loro “mantra” esistenziale. Qui Nietzsche non mette in questione la “magnanimità dell’Olocausto di Sé”, ma contesta di più il motivo essenziale per cui dichiarare il “bruciare di se stessi” in nome della verità.
Nietzsche accetterebbe un “olocausto di sé” solo se si “sorride”, se si crea in modo dionisiaco, essendo leggeri, forti, positivi. Invece la vita, alla base delle riflessioni di Rousseau e Schopenhauer è una vita risentita, negativa, pesante. Fare “olocausto di Sé” in nome della Verità, nel caso di Rousseau e Schopenhauer, per Nietzsche, è un voler affermare la propria vita solo per porsi contro tutto e contro tutti, in modo da essere riconosciuti dagli altri e non per ricercare la Verità. Insomma Nietzsche, pensando ai casi di Rousseau e Schopenhauer, li considera dei malintesi di comunicazione e considera i due filosofi come non “trasparenti”. La “Trasparenza” ritornerà in Rousseau, in base alla lettura di Starobinski, quando si tratteranno i “Cuori Ardenti e Sensibili”.
Nietzsche si dimostra contrario ad una “concezione orgogliosa della verità”. Colui che fa “olocausto di Sé” nel modo idoneo, mostra un carattere magnanimo del pensatore, un carattere “olimpionico”. Per Nietzsche, Rousseau era alla “caccia della verità” soltanto per affermare il proprio Ego assoluto. Quello di Rousseau, per Nietzsche, non è un olocausto di Sé di fronte al vero.
In che senso anche noi siamo ancora devoti, Nietzsche pensa che la “Volontà di Verità” corrisponda alla Volontà di non ingannare gli altri e di non ingannare se stessi. Per questo, secondo Nietzsche, siamo nel “campo della morale”. Perché non vuoi ingannare, se la vita è fatta di sole apparenze, illusioni, inganni ed ipocrisie? Nietzsche si domanda se sia donchisciottismo. Ma in realtà questa “Volontà di Verità”: potrebbe essere un’occulta volontà di morte. Ecco perché la domanda sulla scienza, diviene un problema morale: a quale fine esiste in genere una morale, una “Volontà di Verità”, se vita, natura e storia sono “immorali” e sono piene di inganni? Insomma l’uomo verace (per Foucault il parresiasta), nella sua temeraria “fede nella scienza” o nella “ricerca della verità”, afferma un mondo diverso dal mondo della nostra vita, della nostra natura e della nostra storia. Insomma la veridicità, la Verità, la veracità è, per Nietzsche, la dimensione propria del soggetto che sostiene la verità, al di fuori dal campo del “martirio della Verità” o fino in fondo senza mezzi termini.
Per Kant, invece, il più alto principio morale è proprio la Verità. Difatti per essere soggetti morali non bisogna falsificare le cose, ma bisogna svuotare qualunque dettaglio che rinvia al sé. Difatti Bello e Verità sono svuotati da ogni contenuto personale, rinviando a un tratto universale. Quindi la validità p data in ogni caso se è universale. La veracità come più alto principio formale della moralità consiste nel dire il Vero per Kant Impiegare: impiegare la Vita in nome della Verità. Questo principio si consegue in quanto “costrizione libera”, ovvero, è una verità che si contratta con se stessi. Questo obbligo come “contratto con se stessi” conduce l’Io a “sacrificare” a vita al vero, dandosi in uno spazio di autonomia. Quindi l’Io anche se agisce in uno spazio di autonomia, in quanto Ragion pratica, esclude ogni interesse personale e assume l’imperativo categorico. L’obbligo di dire la verità agli altri è una condizione di “contrattualizzazione”, in cui non si contempla l’inganno. Si è liberi come colui che ha onorato il contratto di non ingannare se e gli altri. La Verità richiede un’articolazione del soggetto nel campo della morale: la verità richiederebbe la posizione del soggetto. Insomma Kant ritorna al suo famoso motto del Sapere Aude presente nel suo celeberrimo Was ist Aufleklarung?, in cui la dimensione della responsabilità soggetti attraversa l’intero piano della vita. Per “uscire dallo stato di minorità”, bisogna essere criticamente coraggiosi, accantonare l’orgoglio e porre la verità come istituzione della propria morale. Questo tipo di supporto alla verità, in Kant, è privo di secondi fini. Il soggetto morale, anche se assume un imperativo categorico universale, agisce nella propria individualità attraverso un percorso morale diretto verso la veridicità. Quindi in Kant, la questione della Verità connessa alla Vita, assume la dimensione dell’obbligo della necessità di dire il vero. Il Soggetto morale assume la capacità di dire il vero, riguardo la propria condotta personale, in quanto affermazione di pura ragione, di pura razionalità dell’Io. Difatti, secondo Kant, l’altro viene considerato sempre come un fine e mai come un mezzo. Questo comportamento unisce sia la razionalità sia la morale, insomma, la filosofia morale di Kant mira all’applicazione morale della Ragion Pura, anche se con modalità differenti[12].
La Ragion Pratica è capacità di relazionarsi all’altro in quanto finalità e non come mezzo. Questo è l’imperativo categorico, invece, l’imperativo ipotetico si basa più sulla convenienza personale senza ad arrivare a porsi realmente in relazione con l’altro. La morale kantiana pone al centro dell’imperativo categorico la Ragione, la Libertà, la Moralità, il Dovere: per Kant la responsabilità, in quanto obbligo morale, “deve, perché deve” rispondere sempre al vero.
3° Lezione: Il “Nulla filtra”
Il dire la verità (il Principio della Verità) si oppone all’eteronomia (principio del condizionato e dell’utilità). Il principio morale implica una volontà fondant e vincolata ai principi della morale. Questa è la disamina che ci viene offerta da Kant, in quanto obbligazione morale, assumendo i connotati di un vincolo, di una contrattualizzazione. Ma quando la ragione pratica è sufficientemente in grado da sola (= come pura ragione senza l’ausilio di impulsi sensibili) di muovere la volontà? Quando la ragione pratica muove liberamente la volontà, allora, esprime leggi morali aventi un valore universale.
Le determinazioni generali della volontà sono i “principi pratici”, che hanno una dimensione generale e una dimensione particolare. I “principi pratici” si dividono in “massime” e “imperativi”:
- Le “Massime” sono principi pratici, che valgono solo per i singoli soggetti e sono soggettivi (esempio: “vendicati di ogni offesa che ricevi”)
- Gli “Imperativi” sono principi pratici oggettivi, cioè validi per tutti. Sono “comandi” o “doveri” che esprimono la “necessità oggettiva” dell’azione. Qui l’azione dovrebbe avvenire in base alla ragione
Gli “Imperativi” si dividono in due tipi:
- “Imperativi ipotetici”: determinano la volontà solo “a condizione che” se la volontà voglia raggiungere determinati obbiettivi (esempio: “se vuoi essere un campione sportivo, devi allenarti”). Vengono detti ipotetici poiché valgono solo a condizione che si voglia lo scopo a cui sono finalizzati. Quindi l’ “imperatività” è condizionata dal soggetto o dagli eventi. Possono essere 1) “regole dell’abilità”; 2) “Consigli della prudenza”: finalizzati a scopi, quali la ricerca della felicità (esempio: si cortese)
- “Imperativo categorico”: determina la volontà semplicemente come “volontà”, prescindendo dagli effetti o dai fini. È un “devi perché devi” e un “devi e basta”. Gli imperativi categorici sono “leggi pratiche” che valgono incondizionatamente per l’essere razionale. Quindi le leggi mori sono solo gli imperativi categorici. Sono universali e necessari. La necessità o il dovere morale sono indicati dal verbo sollen in quanto vale per tutti gli esseri razionali senza eccezione.
L’Imperativo categorico è espresso nella formula: << Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale >>. Quindi ogni massima (soggettiva) divenga una legge universale (oggettiva).
L’Imperativo categorico è una proposizione da cui la volontà è determinata (mossa) a priori oggettivamente. Questo significa che la ragion pura è in se stessa “pratica”, perché appunto determina la volontà senza che entrino in gioco altri fattori.
L’esistenza della legge morale si impone come un “fatto della ragione” (ein Faktum der Vernunft). Ciò si spiega solo se si ammette la libertà. Noi acquistiamo coscienza della libertà proprio perché prima di tutto abbiamo coscienza del dovere.
L’Imperativo, che mi comanda di volere secondo la pura forma della legge, mi comanda in sostanza la libertà. L’Imperativo è un giudizio sintetico a priori, dicendomi qualcosa di nuovo. Il darsi del dovere mi dice eo ipso che sono libero.
La libertà è l’indipendenza della volontà dalla legge naturale de fenomeni, ossia, dal meccanicismo causale. La libertà è il carattere proprio di quella volontà che può essere determinata dalla pura forma della legge, senza bisogno del contenuto (il contenuto è legato alla legge naturale del fenomeno). Questa libertà spiega “tutto” nella sfera morale (e non nella sfera della Ragion Pura). Noi prendiamo coscienza della libertà per via morale.
Noi conosciamo, prima, la legge morale (il dovere) come “fatto della ragione”, e, poi, da questa inferiamo come suo fondamento e come sua condizione la libertà. Se, per fare un esempio particolarmente eloquente, un tiranno, minacciandoti, ti imponesse di testimoniare il falso contro un innocente, può ben darsi che, per paura, tu ceda e dica il falso. Ma, dopo, ne avresti rimorso. Questo significa che tu capisci benissimo che “dovevi” dire il vero, anche se non lo hai fatto. E se “dovevi” dire il vero, allora anche “potevi” (anche se hai fatto il contrario). Il rimorso dice appunto che dovevi e dunque potevi.
Il pensiero kantiano al riguardo può quindi riassumersi così: “devi, dunque puoi” ( e non viceversa). È questa dimensione fra dovere e libertà, che si innesta la questione della verità in Kant.
Ritornando alla Verità in Nietzsche, che cos’è la volontà di Verità? La volontà di dire la verità a tutti i costi, in modo da rendere ragione. Questo tipo di visione connessa nel “legare” o “fissare” la realtà sembra fare eco con la concezione della “meraviglia” in Aristotele e della proposizione di Leibniz (“L’essere piuttosto che il nulla?”). Con lo stupore o la meraviglia si cerca di fermare il Caos, che secondo Nietzsche è in continuo e dionisiaco movimento, e che lo stesso Caos corrisponde alla Vita. Quindi da una parta abbiamo un continuo divenire o un mutamento, in quanto Caos, dall’altro lato vi è un soggetto che ragiona e tenta di render ragione delle cose, fissando dei punti stabili del discorso, della ratio, ossia dell’episteme, nella dimensione della vita/caos. Quindi il linguaggio stesso cerca di “irrigidire” la realtà mobile e sempre in movimento.
Si tratta di relazioni fra piani ontologici differenti- Questo afflato “patetico” del filosofo di ricercare la Verità nel caos del mondo è un tratto, non permette al piano del Vero di coniugarsi con quello della presunzione del conseguimento alla ricerca del del vero.
Facciamo un breve back ground filosofico criticato dallo stesso Nietzsche. Chi introdusse, nella disposizione della ricerca filosofica al vero, la possibilità di “isolare” il dato empirico a favore di quell’astratto? Furono i physiologi prima di Parmenide: è il modo di interrogare ciò che può spiegare tutte le cose, ovvero, la ricerca dell’ arche. Questo tipo di discorso dovrebbe esaurire la spiegazione riguardo a tutti gli enti. Il “Fisiologo” guarda in sequenza l’apparizione o l’esistenza degli enti e cerca di fornire o rendere ragione riguardo ad un fondamento “ontologico” unitario. Quindi le “regole dell’astratto” o della ricerca dell’ arche è di stabilire 1 o più principi di “ragione” che spiegano tutta la realtà. Questo astratto criterio universale permette ai molti di divenire 1, quindi il differente diventa l’unico. I physiologi tentano di individuare un “principio generato”, tramite un processo di astrazione, offrendo una visione panoramica, in cui tutti i dettagli sono posto sotto un unico sguardo, sotto un unico logos, sotto un punto isolato o astratto. Insomma chi possiede questo logos, decide anche la Verità.
Anche la stessa Morale Cristiana è attaccata da Nietzsche. La Volontà di Verità è la voce stessa di Dio. Ma quali sono i vantaggi offerti dalla morale cristiana? Si tratta di conferire a Dio un valore assoluto nella corrente caotica del divenire. Gesù è un alfa e un omega nella storia Universale: il suo giudizio universale e la sua perfezione rendono il male, vissuto sulla nostra terra, privo di senso, sull’altra terra, a chi ha creduto (pistis) alla rivelazione cristiana. La morale cristiana offre all’uomo credente un punto di fuga dal nostro mondo, insomma, offre all’uomo credente un logos fisso (Dio, la trinità, ecc.) che possa fissare (“redimere”) il nostro mondo caotico con la prospettiva di un ultra mondo più giusto. Questo logos ci eleva al di sopra del divenire, del mutamento, dello scomparire. In questo caso la “ragione” scintilla grazie alla Fede e il diviene presente alle stesse creature. Addirittura anche il male riceve un suo “punto di fuga”: addirittura il male riceve una collocazione di senso, è come se la stessa rivelazione recida il male nell’ultra dimensione, dando un senso a chi vive in questo mondo. Addirittura anche il morire, nella morale cristiana, viene giustificato. Insomma la Scala visionis o la scala dell’essere inserisce il male in quanto suo significato, che fonda un sapere intorno a cui i valori assoluti sono equiparata a un rendere ragione in base ad un criterio di Verità. In questo caso il criterio di Verità è la fede cristiana.
Ma la questione della Verità, in Nietzsche, assume la dimensione di riporre in questione, in modo geneaologico, la morale, scoprendone la “falsa teleologia”. Quindi Nietzsche mette in questione l’impossibilità di ricevere una consolazione. Però, il filosofo di Rocken, è contrario all’atteggiamento dell’ “olocausto di Sé” nel processo di ricerca della verità dato che fare “olocausto di Sé” corrisponde ad annichilire la Vita.
Ma allora la Verità come si forma geneaologicamente? Facciamo riferimento alla Gaia Scienza (aforisma n°334). Si forma progressivamente i quanto “Polizia della diffidenza”, tipico atteggiamento della scienza o del metodo scientifico: è importare porre un’ipotesi e ricercare una tesi. Difatti si parte da una base provvisorio per poi individuare una legge generale. Ma questo atteggiamento è sempre diffidente in quanto non si è in continua ricerca per fissare un sapere. Quando il sapere cessa di essere un sapere, allora, diventa una convinzione soggettiva, mentre, la conoscenza è una convinzione che ha cessato di essere convinzione e assume un carattere impersonale. L’operatore scientifico non mette mai qualcosa di soggettivo nell’ipotesi: svuota la propria personalità e nell’enunciare un “sapere” perde la propria singolarità. Quindi l’ipotesi e le tesi hanno una funzione regolativa per ciò che riguarda il sapere. Il discorso scientifico deve far cessare le altre convinzioni e farle “morire” a favore di un sapere ma soprattutto ad una metodologia che non faccia immettere convinzioni personali nel “sapere”. In somma nella relazione fra forma e contenuto, il soggetto del “Discorso scientifico” è vuoto. Il discorso scientifico deve appunto dimostrare di non essere una convinzione, quindi rinvia a un soggetto morale che diviene vuoto delle proprie convinzioni. Ma perché? Perché questo soggetto ha il dovere morale di dire sempre il vero e non sottrarsi al vero: ha il compito di fornire un’imperiosa e incondizionata verità che abbatta tutte quanti le passate convinzioni, altrimenti non c’è discorso scientifico. Questa continua ricerca di tesi valide e vere pone il problema di trovare un filo stabile all’interno del caos nella Vita.
Quindi il discorso scientifico ricerca l’astrazione incondizionata riguardo ad presenza di un discorso vero che possa coniugare un “sapere imperioso” (che abbatte tutte le convinzioni) e la ricerca della verità in quanto “olocausto di sé”. Questa è la fede “scientifica”, che non vuole essere contesta dal caos del mondo. Ma nel frattempo, probabilmente per Nietzsche, il “nulla filtra”.
La scienza e la ricerca scientifica crede in se stessa, nel suo modo di procedere e di avvicinarsi ad una “verità democratica” (ma in realtà è un inutile “olocausto di Sé) nella comunità scientifica e apertura alla contestabilità, dove è proprio la Verità ad essere sempre il padrone. Questo metodo ricerca di dare ragione alle cose che in realtà sono in continua mutevolezza. Questo dato oggettivo/fattuale vuole appunto far cessare il soggetto, che in realtà è sempre implicato nei mutamenti e negli errori. Perciò il “Nulla filtra”. Il soggetto scientifico tenta di proporre un “episteme”, ovverossia, far cessare la propria convinzione, ponendo come un sapere “imperioso e incondizionato”. Questo tentativo del soggetto scientifico è un cercare di fermare, di stabilizzare, di porre in crisi il flusso del vivere o del caos dove noi stessi siamo parte del Caos. Perciò il “Nulla filtra”.
4° Lezione: Aforisma n°334 della Gaia Scienza
Il discorso scientifico non è scevro o sciolto da presupposti secondo Nietzsche. Difatti un sapere, un episteme, in una qualsiasi disciplina con pretese scientifiche, è sottoposta al “controllo di polizia”, alla “polizia della diffidenza”. Questa “polizia della diffidenza” è il sottoporre qualsiasi convinzione al “cessare” di essere una convinzione in modo tale che tale convinzione diventi un episteme. Ma affinché questa disciplina possa aver inizio, deve esistere una convinzione imperiosa. Ma qual è questa convinzione più imperiosa? È la fede su cui riposa la scienza: è la verità, ovverossia, è la convinzione che << niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano >>. Questo è quello che scrive Nietzsche nella Gaia Scienza, aforisma n°344. Quindi questa convinzione, ovvero, la “volontà di verità”, è la “fede” su cui poggia la scienza. Questo discorso epistemologico mostra che la fede su cui riposa la scienza, la “Volontà di Verità”, è un volere la verità a tutti i costi, ovvero, un uno svuotare o ecclissarsi del soggetto facendo emergere il tratto dell’impersonalità.
Nietzsche, giustamente, si chiede cosa sia la “Volontà di Verità”, se questa fede su cui riposa la scienza è << niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano >>. Nietzsche si chiede se sia la volontà di non lasciarsi ingannare o sia la volontà di non ingannare. Insomma se la volontà di verità è:
- La volontà di non farsi ingannare
- La volontà di non ingannare gli altri
Allora è la volontà, in generale, di non ingannare qualsiasi o alcuno. Quindi la volontà di non ingannare esprime l’esigenza di non voler ingannare, ma soprattutto di non farsi ingannare, rivolgendosi al soggetto. Proporre una verità significa, da parte del soggetto, manifestare “volontà di sapere”, significa ricollocare il soggetto. Ma allora perché non ingannare? Perché non farsi ingannare? Quale desiderio si struttura fra le due domande poste?
Il “non lasciarsi ingannare” è di percepire l’altro come un potenziale o fattuale ingannatore. Sotto questa generalizzazione c’è la difesa della “propria cara persona”. È l’ “Io non voglio essere ingannato”. Dietro l’enunciazione di un’episteme impersonale si nasconde un Io o soggetto celato, coperto da un velo di impersonalità dovuto all’ episteme. Questo soggetto celato vuole difendere la propria, peculiare e piccola persona in modo da non essere ingannato. Questo è il sottile rapporto che lega la Verità (die Wahrheit) e la Menzogna (die Lüge): la Volontà di Verità è 1) la Volontà di non ingannare, 2) La Volontà di non lasciarsi ingannare.
Il “non ingannare” significa quasi “istituzionalizzare” un possibile ingannatore, che si possa rivelare come nocivo, nefasto per il soggetto e al limite del personale. Il non ingannare è un avvertimento, una cautela. Tutto ciò implica che il discorso scientifico sarebbe quasi un invito a tare in guardia riguardo tutto. La scienza sarebbe una “polizia della diffidenza”.
Questo non ingannarsi è più nocivo o meno nefasto per l’esistenza stessa? L’esistenza scegli come riferimento la diffidenza o la fiducia? La presunta pericolosità di essere tratti in inganno ci fa percorrere entrambe le vie: fiducia e diffidenza, due direzioni presenti nella vita. La scienza ci offre un criterio generale: non farsi o lasciarsi ingannare. Quindi ogni altra convinzione è “rifratta”, pertanto il discorso verace si costruisce in opposizione all’altro. La scienza eleva la sua “convinzione imperiosa” (niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano) a un grado di unicità incondizionata verso cui si sacrifica tutto il resto delle altre convinzioni personali, in modo da gestire un episteme impersonale e oggettiva.
Decidere di fondare e ristrutturare la conoscenza i base a un criterio di assoluta Verità e assoluta non Verità (inganno, menzogna, ecc.) dovrebbe, in teoria, comportare un “benessere” dell’esistenza. Questo benessere, dato anche con l’incontro con l’altro, è un misto di Verità e Menzogna. Difatti la Verità può anche essere la condizione di un presunto malessere nei confronti di un episteme, prima accettato da tutti, e che ora diventi una convinzione personale, non più accettata da tutti. Pertanto la “Verità a tutti i costi” sarebbe, in base al criterio del discorso scientifico, una ricerca del benessere concesso all’esistenza in modo da distinguere ciò che è verità da ciò che è non è verità. Insomma la scienza sarebbe la sospensione dell’inganno.
Nietzsche individua geneaologicamente la rottura dell’Episteme e della Doxa, analizzando la “Volontà di Verità” (non ingannare e non lasciarsi ingannare). Questo tema è la culla d’origine dell’ontologia greca antica, ovvero, il principio del to eon (dell’Essere) o della via dell’Essere secondo Parmenide.
Quindi il criterio scientifico di determinare o meno Verità o Menzogne è una “fede” che riposa sula concetto di “Volontà di Verità”. Da Dove si origina il Criterio di Verità? La fede nella Scienza è sorta, nonostante il fatto che continuamente si siano dimostrati a essa lo svantaggio e la pericolosità della “Volontà del Vero”, della Verità a tutti i costi. Questa “Verità a tutti i costi” è data dalla continua diffidenza, dalla continua ricerca, dalla continua “polizia della diffidenza”.
Pertanto la “Volontà di verità” non significa “io non voglio farmi ingannare”. La “Volontà di Verità” significa “io non voglio ingannare neppure me stesso”. A questo punto Nietzsche afferma che “con ciò siamo sul terreno della morale”. In un certo modo c’è un richiamo all’unica obbligazione morale espressa da Kant: il vincolo di dire a se stesso il vero, a cui un soggetto morale non può sfuggire.
La volontà di non ingannare me stesso perché è morale? Sia la verità che la menzogna, in quanto assunzione di realtà e apparenza sono dei criteri utili per continuare ad esistere. Difatti la vita stessa è piena di apparenze, inganni, errori, ipocrisie; quindi una forma grande di vita è data dal ricercare una vita da polutropoi, ossia, nell’essere moltiformi e poliedrici, non uniformandosi mai.
Però questa bizzarria di essere multiformi, questo delirio pari a quello di Don Chisciotte, potrebbe anche essere un’occulta “volontà di morte”. L’essere multiformi si pone in una posizione contraria a chi vuole irrigimentare la realtà, in quanto “Volontà di Morte”. L’essere multiformi è un modo diverso di come pensiamo il non essere, tradizionalmente. Di solito tendiamo a pensare al Non essere in quanto nulla o peggio ancora come mortificazione di noi, di ciò che siamo, dettata da un “non volere se stessi”. Pertanto il co-aderire a se stessi è il monito che ci viene lanciato dallo strappo parmenideo, dato che noi siamo “luci e ombre”, e non siamo compiuti o perfetti. Il cristianesimo o altre esperienze metafisiche eliminano l’inganno in modo da farci bramare una vita eterna, non vivendo pienamente quella presente, e quasi anelando verso una “Volontà di Morte”. La proposta di Nietzsche è di essere Polutropoi, esseri multiformi, essere “Arlecchino”, vivere il caos in quanto apparenza in una modalità dionisiaca in modo da poter continuare a “distruggere” noi stessi per poi ricrearci come un “colpo di dadi”, divenendo il divenire.
La morale, per Nietzsche, deve seguire il corso o la direzione della Vita. Il discorso morale non deve cercare degli appigli sicuri nella Vita, tenendosi salda e unita, ma piuttosto deve seguire l’appariscenza e la vasta gamma di valori che l’uomo dionisiaco o il possibile oltre uomo è in grado di creare senza alcun tipo di risentimento. Il discorso morale deve affermare, secondo Nietzsche, la multiformità della vita, in cui i criteri stabili (propri della Volontà di Morte) non valgono più, in quanto sono unilaterali e cercano punti fissi, mentre, la realtà si mostra o appare in modo caotico e senza forme.
Il donchisciottismo della Volontà di Morte, ovvero, di irrigimentare il mondo a definizione di verità poggia in realtà su una credenza di una “fede metafisica” di definire la realtà in modo fisso, mentre, la realtà è puro caos. Nietzsche riscopre dei paralleli molto fini fra “Volontà di Morte”, propria della scienza, con le altri “fede metafisiche millenarie” (fede cristiana, platonismo, teologia), che cercano di irrigimentare e presentare come veri alcuni aspetti della Vita, della Natura, e della Storia, laddove questo trittico nella realtà si presenta come “Immorale”, fallace, multiforme, in continuo divenire. Questa “Fede metafisica”, in quanto tentativo di individuare un mondo di regole trascendenti che si danno nel reale, corrisponde alla volontà di verità a tutti i costi in quanto Volontà di Morte. Ma questa scelta epistemologica è in primis una scelta di tipo morale, proponendo una fissa verità, che è una e assoluta e soprattutto avulsa dal divenire. L’atteggiamento morale, per Nietzsche, è completamente l’opposto dato che propone di essere multiformi, di imprimere il sigillo del divenire al divenire stesso, di ballare, di ridere e giocare con la realtà, in modo da creare, come il bambino, antesignano dell’oltreuomo. Per Nietzsche adottare un punto fisso di Verità nel Mondo caotico, significa in certo qual modo negare la stessa vita poiché la Vita è multiforme, in continuo divenire, in continua trasformazione e soprattutto la Vita non può essere definita da sterili Verità fisse, che non la coglierebbero mai. La Vita, per Nietzsche, ha una dimensione apparente e transuente. È questa la dimensione caotica su cui Nietzsche discute riguardo alla Verità e alla Menzogna.
5° Lezione: La capacità prestigiatrice dell’Intelletto
Riprendendo un aforisma di Aurora[13] Nietzsche critica Rousseau e Schopenhauer. Il Sé di Nietzsche cerca di connettere la Vita e la Verità in modo diverso dai suoi predecessori. Difatti Rousseau e Schopenhauer, nel proporsi ai propri lettori e presentando teorie generali, non fanno altro che introdurre o intromettere il loro Sé, riducendo la carica eversiva delle proprie teorie.
Questo atteggiamento rinvia alla “Volontà di Verità”, espressa nell’aforisma 334 della Gaia Scienza, che in realtà è una “Volontà di morte”, ove, il “Nulla filtra”, poiché la realtà caotica viene irrigimentata ad assunti od assiomi “scientifici” inderogabili. Invece per Nietzsche una “grande Vita” è data dall’accettare la multiformità della Vita, ossia, è divenire il divenire stesso, è essere Polutropoi[14].
Il campo della morale, in base all’affermazione di “non lasciarsi ingannare”, è il campo dell’auto-scissione dell’uomo. Agire moralmente verso l’altro significherebbe scindere l’Io o sacrificarlo per un’altra persona. Morale significa sacrificare il proprio Sé in vista di un altro. Morale significa prendere una parte dell’altro nel proprio Sé, mentre, una parte del proprio Sé è presa dall’altro. L’uomo è un soggetto morale, quando “uccide” una parte egoistica per poi durare nell’altro. Però l’Io potrebbe conservare un piccolo interesse che potrebbe a sua volta sviluppare la volontà di magnificare la propria vita. Questo è il “Regno della Morale”: 1) seguire una vita di “animalità”, ovvero, legata a logiche di dominio sull’altro; 2) seguire una vita esaltata da ogni desiderio. Quindi il “Regno della Morale” potrebbe diventare una dimensione del tornaconto. È qui che ricade la domanda: << Perché non vuoi ingannare? >>. La domanda ricade nel campo della morale perché l’Uomo potrebbe affermare, tramite le proprie verità, una “fede metafisica” che è completamente diversa dal nostro mondo, negando il nostro mondo. Questa “fede metafisica”, su cui riposa la stessa Scienza, è molto simile alla Fede di Platone o della Fede in Dio in quanto Verità. Però queste verità sono per Nietzsche le nostre più lunghe menzogne.
Riferiamoci all’aforisma n°345 della Gaia Scienza. Per Nietzsche il campo della Morale non è stato sottoposto a questioni realmente filosofiche dalla tradizione. Innanzitutto la tradizione ha tentato di “problematizzare” la Morale in un “rapporto impersonale”, mentre, per Nietzsche i grandi problemi (compresi anche quelli morali) esigono il “grande amore”, espresso dagli “Spiriti Forti”, che affrontano personalmente tali problemi in una condizione di miseria o di somma felicità. Nietzsche domanda a se stesso e a noi perché mai non amai incontrato qualcuno che sentisse nella morale un problema in quanto sua personale angustia, tormento o passione. Secondo Nietzsche la morale non è mai stata “problematizzata” come un problema, poiché la morale non ha prodotto una “critica dei valori”, ma piuttosto si è assestata a un “reciproco accordo”: addirittura i pensatori vi hanno trovato un “luogo della pace”. Nietzsche afferma che nessuno ha tentato “una critica dei giudizi morali di valori”. Chi tratta la morale, ovviamente Nietzsche si riferisce alla tradizione filosofica, pensa all’azione morale in quanto “disinteresse, auto-abnegazione, autosacrificio o compassione”, cercando sempre un “consensus morale” fra i popoli. Anche se questa ricerca continua di un’omologazione morale è un continuo porsi in errore, non propone poi una “critica dei valori” morali, tentativo che lo stesso Nietzsche cerca di mettere in questione.
Passiamo ora a Verità e Menzogna in senso extramorale[15]. Nietzsche lo considera un significativo e un personale pro memoria. Il testo Su Verità e Menzogna in senso extrmorale fu dettato da Nietzsche, a causa delle sue sofferenze agli occhi, ad un amico, Carl von Gerdorff, durante l’estate del 1873, forse già a fine giugno a Basilea e poi a Flims nei Grigioni. Il testo rientra nei lavori relativi al progetto di un volume da intitolarsi Il filosofo o L’ultimo filosofo, di cui rimangono diversi quaderni di frammenti preparatori e anche un altro scritto incompiuto, e poi postumo, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci. Su verità e menzogna in senso extramorale costituisce per Nietzsche un promemoria: è un testo in cui è contenuto il suo personale modo di pensare, in particolare alle cose morali, ma non solo.
L’autointerpretazione di Nietzsche, negli scritti autobiografici del 1884, individua Su Verità e Menzogna in senso extramorale come il 1° scritto autonomamente teoretico dello stesso Nietzsche. Su Verità e Menzogna in senso extramorale esprime il modo di pensare di Nietzsche, a prescindere da occasioni di interpretazioni storico-filosofiche o filosofico-filologiche, come potevano essere gli scritti precedenti come La Nascita della Tragedia (1872). Questo scritto indica il odo di pensare riguardo le “cose morali”: è beninteso in senso extramorale, quindi teoretico, di generalissima riflessione di pensiero e sul modo del pensare in genere, seppur personalmente vissuto e analizzato e interpretato. Insomma Nietzsche attesterà il mantenimento di tale modo di pensare (“Critica dei valori” in senso extramorale) o comunque il punto di riferimento teoretico da esso costituito per il suo autore lungo un periodo più che decennale.
Nietzsche è considerato un filoso un po’ “anomalo”: in realtà ha un’educazione da filologo. In Nascita della tragedia greca individua due caratteri, due pulsioni, due spiriti: l’apollineo e il dionisiaco. Queste due componenti sono presenti all’interno della vita dell’uomo.
Per quanto riguarda la “Volontà di Verità”, in quanto “Olocausto di Sé” o “Volontà di Morte”, ovviamente, questo ruolo viene svolto, per Nietzsche, nella cultura greca da Socrate. Euripide e Socrate sono fortemente contestati da Nietzsche in quanto rappresentano il massimo squilibrio a favore dell’apollineo.
Su Verità e Menzogna in senso extramorale critica quell’attitudine di individuare la “verità oggettiva”. Questa è la critica dei valori alla ricerca epistemologica della Verità e della Menzogna. La verità è un’elaborazione arbitraria, o meglio “un esercito di metafore”, in che è determinato dall’Intelletto umano in quanto strumento di conoscenza. Le nostre verità sono come degli “astri”, che sono ritenuti il nostro conoscere. Ma queste conoscenze si “raggelano”, dimostrando che il nostro intelletto è miserevole, umbratile, insensato. Allora l’intelletto umano si riscopre umano, forse “umano troppo umano”, dimostrando che non è il cardine conoscitivo del mondo. Pertanto l’intelletto non ha alcun’ altra missione, che conduce oltre la vita umana, verso un senso “trascendente” o verso una “fede metafisica”. Difatti ogni essere vivente centralizza il proprio impianto conoscitivo o epistemologico al centro del mondo stesso. Per Nietzsche, infatti, anche una “zanzara” (simbolo insignificante di qualsiasi animale) sente di essere il centro volante di questo mondo:
<< Ma se noi potessimo intenderci con la zanzara, allora apprenderemmo che anch’essa con questo pathos nuota nell’aria e in sé sente il centro volante di questo mondo >>
Questo pathos, di verità o di voler spiegare il mondo col le proprie verità, prodotte dalla capacità prestigiatrice dell’Uomo (o il piano epistemologico di qualsiasi animale), per Nietzsche, è totalmente da rigettare. Difatti il più orgoglioso degli uomini, il filosofo, crede che il suo agire, la realtà, il suo comprendere siano veicolati dagli “occhi dell’universo da ogni lato”, ovvero da costruzioni metafisiche che l’uomo stesso ha prodotto.
L’intelletto è un mezzo ausiliario, soprattutto utile per gli uomini, al fine di conservare l’esistenza. La tracontanza di conoscere inganna gli uomini riguardo l’esistenza. Il tema dell’inganno e dell’illusione (die Tauschung, die Illusion) risale forse anche a letture leopardiane. Pertanto l’effetto della facoltà prestigiatrice, propria dell’Intelletto, è l’Inganno.
L’Intelletto è il mezzo per la conservazione dell’individuo. L’intelletto dispiega il proprio essere nella “Finzione”. La Finzione è il mezzo con cui gli individui più deboli conservano la vita e la propria individualità, in quanto non sono feroci nel bellum omnis contra omnes.
L’Intelletto umano ha la facoltà di escogitare qualcosa per ripararsi dalla caducità e dall’infelicità. Questa arte prestigiatrice o di “Finzione” raggiunge il massimo nell’intelletto umano, che inganno, mente, maschera, imbroglia. Insomma a primo sguardo sembra inconcepibile che l’impulso della Verità provenga dall’intelletto che predilige più la “Finzione”, l’inganno, l’imbroglio, proprio per auto-conservare la vita. L’intelletto diventa un “mezzo di difesa” o un “mezzo di dominio” anche verso gli altri.
La vita è caos per Nietzsche, pertanto l’intelletto umano è uno strumento per ripararsi dalla caducità. L’Intelletto è un mezzo di difesa, uno stratagemma, uno strumento anche contro l’altro. Insomma l’Intelletto si pone anche in un atteggiamento di “tracotanza” verso l’altro, in un tentativo di “dominare” l’altro.
L’uomo, pertanto, sarebbe immerso da “illusioni oniriche”, date proprio dalla Realtà (dato che è caotica), che non gli permette mai di condursi alla verità. Quindi << l’uomo si lascia ingannare in sogno senza che il suo sentimento morale cerchi mai d’impedire ciò >>. Addirittura la Natura, la realtà, il mondo gli tacciono la “vera conoscenza”, gli tacciono molte cose, rinchiudendo l’uomo in una “Coscienza prestigiatrice”. Così l’uomo è posto al di là del “flusso” della realtà o natura, che è in continuo movimento.
Insomma la Natura gettò via “le chiavi della comprensione” o “le chiavi della conoscenza”. Il fallace impianto conoscitivo dell’Uomo e l’uomo stesso poggiano su una realtà o natura che è spietata, avida, insaziabili e assassina; difatti la conoscenza umana è un’ “indifferenza”, corrispondente a un non sapere. Per Nietzsche la conoscenza umana è sospesa metaforicamente in sogno sul dorso di una tigre.
L’ “Indifferenza”, per Nietzsche, è “equivalenza”, ovvero, die Gleichgultigkeit. È lo stato in cui versa la conoscenza umana rispetto alla realtà, essendo essa propriamente un non-conoscere se non un auto-annientarsi del conoscere.
6° Lezione: Si deve volere l’illusione
Per Nietzsche il “filosofo della tragedia greca” ha uno scatenato impulsivo conoscitivo senza alcun apporto di natura metafisica. Nietzsche ovviamente nutre una corrispondenza filosofica con Eraclito, il filosofo del divenire, mentre, aborrisce la speculazione metafisica di Parmenide. Oltretutto Nietzsche si pose in un atteggiamento di forte astio verso l’orientamento metafisico del Platonismo e, in seguito, di una sua derivazione, secondo l’opinione dello stesso Nieztsche, ovvero, il Cristianesimo. Questi due orientamenti considerano il trascendente in sé per se e in se senso stretto come l’essenza o la dimensione prima della verità.
Prendiamo in esame La nascita della tragedia dallo spirito della musica. Ovvero: grecità e pessimismo (1872). È un opera composita ove coesistono filologia, filosofia, estetica e teoria. L’opera ha influssi schopenahueriani e ricevette reazioni negative dai filologi puri. Già dalla “prolusione” del 1869 su Omero e la Filologia classica, egli mostra di intendere la filologia in un’ottica “filosofica”.
Il motivo centrale della Nascita della tragedia è la distinzione fra “apollineo” e “dionisiaco”. Questa coppia di opposti (forma-caos, stasi-divenire, finito-infinito, sogno-ebbrezza, luce-oscurità, serenità-inquietudine) indica i “due impulsi” di base dello spirito e dell’arte greci:
- L’apollineo scaturisce da un impulso alla forma e da un atteggiamento di fuga di fronte al divenire. Si esprime nelle forme limpide e armoniche della scultura e della poesia epica;
- Il dionisiaco scaturisce dalla forza vitale e dalla partecipazione al divenire. Si esprime nell’esaltazione creatrice della musica e della poesia lirica;
Nietzsche insiste sul carattere originariamente dionisiaco (o “asiatico”) della sensibilità greca, portata a scorgere ovunque il dramma della vita e della morte e gli aspetti orribili dell’essere.
L’apollineo nasce come conseguenza di una visione dionisiaca dell’esistenza e dal tentativo di sublimare il caos nella forma, ossia, dallo sforzo di trasfigurare l’assurdo in qualcosa di definito e armonico, capace di rendere accettabile la vita.
Gli dei olimpici sono una creazione umana, un sostegno per “sopportare” la caducità dolorosa dell’essere uomini:
<< Il greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata dagli dei olimpici. >>
Nella Grecia presocratica, l’impulso apollineo e l’impulso dionisiaco convissero separati e opposti.
Nell’età della tragedia attica (Sofocle ed Eschilo) i due impulsi si armonizzarono tra loro, dando origine a capolavori sublimi. Infatti, sebbene vivificato dallo spirito dionisiaco, la grande tragedia manifesta un perfetto “accoppiamento” fra apollineo e dionisiaco. Nietzsche afferma che la genesi della tragedi greca risiede in un “coro dionisiaco che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini”: Nietzsche intende dire che il dramma tragico diviene veramente tale allorquando Dioniso è “rappresentato” tramite una serie di “immagini” che trasformano in un mondo di ideale compiutezza e bellezza il vissuto di sofferenza dell’eroe (ovvero l’essenza caotica dell’esistere).
La sintesi fra dionisiaco e apollineo, durate l’età della tragedia attica, per Nietzsche rappresenta un autentico “miracolo metafisico” della civiltà ellenica.
In seguito sarà l’apollineo a prevalere e il dionisiaco ad essere soffocato. Questo processo di decadenza si concretizza nella tragedia di Euripide (che porta sull scena l’uomo quotidiano, trasformando il mito tragico in un susseguirsi realistico di avvenimenti razionalmente concatenati) e attinge la sua espressione paradigmatica nell’insegnamento razionalistico e ottimistico di Socrate, ossia del filosofo (cui si rifà Euripide) con il quale si compie “l’uccisione” delle profondità istintuali della vita.
La decadenza della tragedia funge da spia rivelatrice della decadenza della civiltà occidentale nel suo complesso e trova il proprio simbolo nell’opposizione irriducibile fra spirito dionisiaco e spirito socratica, ossia fra 1) uomo tragico, portato a dire “sì” alla vita, e 2) uomo teoretico, portato a violentare la vita con “la sferza dei suoi sillogismi”.
La celebrazione nietzscheana dello spirito tragico e dionisaco coincide con una forma di celebrazione della vita che, a rigore, non può venir definita né “pessimista”, né “ottimista”, in quanto tende a porsi programmaticamente al di là sia del pessimismo, sia dell’ottimismo.
Da ciò discende il problema dei rapporti fra Nietzsche e Schopenhauer. Infatti, se da Schopenauer Nietzsche deriva la tesi del carattere doloroso e “raccapricciante” dell’essere, di Schopenhauer respinge la tematica dell’ascesi, contrapponendo alla noluntas schopenhaueriana, fin dall’inizio, un atteggiamento di entusiastica accettazione dell’essere nella globalità dei suoi aspetti.
Per Nietzsche la vita è dolore, lotta, distruzione, crudeltà, incertezza, errore. La vita non ha ordine, né scopo. Il caso domina la vita e i valori umano non trovano in essa garanze precostituite, Due atteggiamenti sono allora possibili:
- Il primo è la rinuncia e la fuga alla vita. Questo è l’atteggiamento di Schopenhauer, elaborato dopo la sua diagnosi sull’essenza della vita. È l’atteggiamento proprio della morale cristiana e della spiritualità comune;
- Il secondo è quello dell’accettazione della vita così com’è. È l’atteggiamento che mette capo all’esaltazione della vita e al superamento dell’uomo;
La scelta di Nietzsche è quella di essere un “discepolo di Dioniso”, poiché in quell’antica figura greca egli vede il “simbolo” del “sì” totale al mondo. Dioniso è il dio dell’ebbrezza e della gioia, il dio che canta ride e danza. Egli è l’incarnazione di tutte le passioni che affermano la vita e il mondo.
Il mondo è, per Nietzsche, una sorta di gioco estetico e tragico, costituito dalla lotta fra gli opposti primordiali della vita e della morte, della gioia e del dolore.
Soltanto l’arte riesce a comprendere il carattere “bipolare” del mondo. Nietzsche parla di “giustificazione estetica dell’esistenza”. Da ciò la “natura metafisica dell’arte” e la sua funzione di organo della filosofia. Secondo E. Fink:
<< Nietzsche formula i suoi giudizi fondamentali sull’essere con le categorie dell’estetica. Questo dà alla Nascita della tragedia un carattere romantico. Nietzsche la chiama “metafisica da artista”. Il fenomeno dell’arte viene posto al centro; con esso e a partire da esso viene spiegato il mondo >>.
L’esaltazione nietzscheana della tragedia ci accompagna alla sua concezione della civiltà come processo di decadenza dovuto al progressivo imporsi dello spirito antitragico, di tipo socratico-platonico. Tutto ciò sfocia nell’ideale di una rinascita della cultura tragica incentrata sull’arte e, in particolare, sulla musica, di cui il filosofo scroge in Wagner un’incarnazione emblematica. L’artista wagneriano e il filosofo schopenaueriano, appaiono, quindi, nel periodo iniziale di Nietzsche, come i due fari, o i due maestri ispiratori, di ogni possibile opera di rinnovamento.
Ritornando al discorso sul “filosofo tragico”, dopo questo breve excursus, possiamo individuare come la “ragione”, muovendosi in chiave apollinea, assuma una “concezione lenitiva” al dolore riguardo alla vita, ovverossia, un lenire la dimensione tragica, angosciosa, caotica, dolorosa dell’esistenza. Così facendo la “ragione” si pone a guida della stessa Vita, cercando di porre l’intelletto come il direttore dell’uniformità del sapere. Con il progredire del tempo il “compito del filosofo tragico” assume i tratti di dominare i tratti dionisiaci dell’esistenza. Però con il corso del tempo l’impulso apollineo o “teoretico” prende il sopravvento su quello dionisiaco.
Nel Filosofo tragico non vi è uno stabilire nuove fede o una nuova metafisica. Qui il terreno della metafisica è sprofondato. Difatti la metafisica, secondo Nietzsche, “sente tragicamente il suo sprofondare”, e in seguito, cercherà, assumendo l’ “impulso apollineo”, di addomestica il tutto apparente, ovverossia, il dolore, il caos, l’imprevedibilità della vita.
Pertanto la Metafisica condurrebbe alla logica di sacrifica la Vita al Vero, in quanto, considera la Vita in un aspetto secondario rispetto all’acquisizione del Vero. Il Vero, in base alla Metafisica, condurrebbe a cogliere l’essenza della Vita, rinviando però a vivere la vera vita in un ultra-dimensione (questo è il caso del Cristianesimo). Questa visione è aspramente criticata da Nietzsche, difatti, Nietzsche è un cantore della vita, anche se è imprevedibile, caotica, dolorosa, piena di errori e incertezza.
La “conoscenza metafisica” sarebbe una “conoscenza disperata”. Inoltre la “conoscenza disperata” si opporrebbe alla “conoscenza tragica”, perché la “conoscenza disperata” è anti-vitale. Perché disperazione? È la disperazione di colui che conosce rimettendo continuamente in gioco la verità. La Scienza o la Metafisica (ricordiamoci il discorso della “fede metafisica” della Scienza nell’aforisma 344 della Gaia Scienza) hanno uno statuto gnoseologico interminabile. Interminabile è la “passione scientifica” determinando uno statuto conoscitivo “disperato”. La scienza è una disciplina “interminabile” fatta di continue prove ed errori. Per la scienza il criterio di verità è “errabondo”. Quindi Scienza e Metafisica sono simili in quanto dimostrano una ricerca della Verità “a tutti i costi”. Ed entrambe sembrerebbe proporre una dimensione dell’esistenza in quanto anti-vitale, siccome vi è nella ricerca una “andare oltre”, vi è un oltrepassamento del dato umano. Questa è la dimensione del disperato. Invece il filosofo tragico annulla il “bisogno della metafisica”, scioglie questo “incantamento”, difatti, la conoscenza dettagliata viene smembrata lato per lato.
La Metafisica viene adoperata dalla “Coscienza disperata” come uno strumento di correlazione fra i vari insiemi del mondo. La triade Io-Mondo-Dio dovrebbe offrire, tramite una scala entis, un modello di comprensione o una dimensione veritativa, alquanto certa, sicura, stabile. Invece la “conoscenza tragica” considera tutto ciò un “castello di sabbia” (confrontalo con il “volto di sabbia” di Foucault in Le parole e le cose), un modo impossibile di conoscere una Vita che non si dà mai. La Conoscenza tragica accetta la vita nel suo caleidoscopio di benessere e malessere. L’arte, essendo un “volere” la Politropia dell’apparire, riesce a cogliere la Vita in quanto congiunzione del campo della Verità e della Menzogna. L’Arte rappresenta la presa di coscienza della vita in quanto dimensione, in cui le opposizioni diventano tensioni, che articolano la vita nel suo insieme. Queste tensioni sono il lato evidente della Vita, la Verità, e il lato ingannatore della vita, la Menzogna.
La dimensione gnoseologica della “Disperazione” è lo “scetticismo”, in quanto anti-sistema filosofico proprio della disperazione. Lo “scetticismo” è un invito costante a mettere in discussione tutto. Questa “disperazione” sembrerebbe accogliere il famoso motto dei sileni: << meglio sarebbe stato non essere nato >> (confronta qui con la visione che ne offre il professore di Estetica, Leonardo V. Distaso). Nietzsche accetta, però, solo lo scetticismo in quanto principio metodico non in quanto rilettura esistenziale dello scetticismo. Difatti, Nietzsche esaltando l’Arte, afferma aspetti completamente diversi proprio a riguardo dell’arte e della “conoscenza tragica”. Per la “Conoscenza tragica” deve valere: << si deve volere l’illusione >>. L’illusione è il prendere “coscienza” del caos riguardo alla vita, o meglio, l’illusione corrisponde all’accettazione totale del “sì” alla vita.
Quindi per la Metafisica e la Scienza la funzione conoscitiva è “antivitale”, di una conoscenza diretta nel sacrificare la Vita in nome di una “Verità a tutti i costi”. Questa è la conoscenza del disperato.
Invece il “si deve volere l’illusione” è la “conoscenza disperata”, che mette in causa qualsiasi lato dell’esistenza appariscente, caotica, dolorosa, piena degli errori. È vibrare continuamente sulla Politropia della Vita.
Quindi Nietzsche oppone il “si deve volere l’illusione” al “si deve volere la veracità” in base alla visione di Kant.
Il “si deve volere l’illusione” di Nietzsche porta ad individuare il ruolo chiave della capacità prestigiatrice dell’Intelletto in grado di elaborare delle “finizioni”.
Con finzioni, in Su Verità e Menzogna in senso extramorale, sono simulazioni (di Verstellung) indichiamo la principale attività dell’intelletto umano volta innanzitutto alla conservazione del singolo individuo.
Con inganno, illusione, in Su Verità e Menzogna in senso extramorale, (die Tauschung, die Illusion), indichiamo che, se la finzione è la principale attività dell’intelletto umano, volta alla conservazione dell’individuo, l’autoinganno ne è il principio primo, attraverso cui l’uomo inganna e illude se stesso sulla propria centralità nell’universo e conseguentemente inganna gli altri in relazione a tale falsa e presuntuosa considerazione di sé.
Con Intelletto, sorto casualmente nell’immensità cosmica, indichiamo, che inevitabilmente svanirà, non rappresentandone che un’infinitesima porzione insignificante, senza riuscire ad attingere alcunché oltre di sé e al di là dell’estrema caducità della vita umana, come, invece, pretenderebbe illudendo se stesso. Altra illusoria pretesa dell’intelletto umano è di essere il centro motore conoscitivo dell’universo, autoinganno proprio, invece, ad ogni seppur minimo essere. L’intelletto umano è un mezzo auto-ingannevole per la conservazione, benché minima, dell’individuo, poiché assai più fragile di ogni altro essere naturale e altrimenti immediatamente soccombente nella lotta continua della vita.
Quindi possiamo individuare, secondo la prospettiva di Nietzsche, che la caratteristica essenziale dell’intelletto è la “Finzione”. L’intelletto è per l’uomo un lo strumento di difesa, che produce continue illusioni, e aggiungiamo per aderire a una prospettiva darwiniana. La “Rappresentazione” (die Verstellung) è l’impulso, dettato dall’intelletto, a lottare per la propria esistenza. Die Verstellung è il rappresentare, il “porre innanzi”, è un catturare. Pertanto la Finzione possiamo identificarla con una “Rete”. La tonalità emotiva della “Rappresentazione” è retta dalla Vanità: l’Intelletto ha in sé e per sé l’essere vanitosi, difatti, l’Intelletto si ritiene il centro conoscitivo dell’universo. Il sentimento della vanità comporta una consistenza di sé, racchiusa nell’esibizione.
7° Lezione: Friedensschlus, il Mentitore, l’arbitrarietà del linguaggio
Die Verstellung è il rappresentare, e ha anche come significati lo spostare o il movimento. La Finzione rappresenta il culmine della funzione auto-conservativa dell’’Intelletto umano. Secondo Nietzsche alla base della “Rappresentazione” o della “Finzione” abbiamo l’Impulso, l’istinto (der Trieb).
L’Impulso o istinto fondamentale dell’uomo è quello alla formazione di metafore, all’attività metaforizzatrice scaturente dalla sua fantasia.
Invece la Fantasia (die Phantasie) è la Facoltà umana capace dell’impulso fondamentale dell’uomo, quello di formare metafore.
L’uomo e l’umanità sarebbero << profondamente immersi in illusioni e immagini oniriche >> (pagina 83). Questa sensazione non conduce alla verità. Anzi la spiegazione della “dimensione onirica dell’uomo” è, secondo Nietzsche, che l’inganno è costitutivo della nostra specie. Insomma la nostra conoscenza è <<un gioco tattile sul dorso delle cose >>, ovverossia, è una conoscenza superficiale che non coglie mai l’interezza delle cose.
<< Inoltre l’uomo si lascia di notte, per tutta una vita, ingannare in sogno, senza che il suo sentimento morale cerchi mai d’impedire ciò: mentre ci devon essere uomini che hanno eliminato il russare attraverso la forza di volontà. Che cosa sa propriamente l’uomo su se stesso! >>
Quindi la realtà conoscitiva basilare dell’uomo è l’inganno e l’illusione: è la realtà di un continuo sogno nella Vita. La costituzione materiale dell’uomo manifesta uno iato fra la dimensione corporale o materiale dell’uomo e la sua capacità conoscitiva. Qui, pertanto, interviene l’ “orgogliosa coscienza prestigiatrice” dell’Intelletto umano, che comporta un rapporto di antagonismo fra la materialità del mondo e la coscienziosità dell’uomo. Ma l’uomo riposa
<< su ciò che è spietato avido, insaziabile, assassino, nell’indifferenza del suo non-sapere, e per così dire sospeso in sogno sul dorso d’una tigre. Donde mai, in tutto il mondo, sotto questa costellazione l’impulso alla verità? >>
Quindi riscontriamo che l’ignoranza sia fondamentale in quanto premessa della possibilità di vivere e auto-conservarsi. La “camera della coscienza dell’uomo” è data in una costituzione naturale bidimensionale, i cui componenti sono: 1) Ignoranza 2) Non-sapere (che l’uomo considera un Sapere). La Vita è possibile solo se c’è indifferenza del suo non sapere, soprattutto corporeo. L’Intelletto cerca di trovare nel mondo una regolare, un ordine a ciò che non sarà mai cosi, dato che il mondo dimostra estremo caos e caso. Il mondo è << spietato, avido, insaziabile, assassino >>. Quindi la nostra conoscenza è un non-sapere, alquanto pericoloso, dato che è come un << sogno sul dorso d’una tigre >>.
Nietzsche si chiede da dove parte o da dove venga l’Impulso alla conoscenza. Qual è la base naturale su cui sorge l’impulso alla verità. Da dove sorge questo impulso alla verità?
Sorprendentemente prende forma o nasce laddove un soggetto si relaziona ad un altro. Difatti:
<< L’uomo per necessità e noia assieme vuol esistere socialmente e a mò di gregge, ha bisogno di una risoluzione di pace (Friedensschluss) e perciò s’adopra affinche per lo meno il bellum omnium contra omnes, più di tutto rozzo, scompaia dal suo mondo. Questa risoluzione di pace porta, tuttavia, con sé qualcosa che somiglia al primo passo verso il conseguimento di quell’enigmatico impulso alla verità. Infatti in questo momento viene fissato ciò che d’ora innanzi dev’essere “Verità”, cioè, viene trovata una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante e la legiferazione del linguaggio dà anche le prime leggi della verità: giacché qui sorge per la prima volta il contrasto fra verità e menzogna: il mentitore utilizza le designazioni valide, le parole per far apparire come reale l’irreale >>
La dimensione coscienziale dell’uomo vuole la Verità anche se non potrà mai conseguirla pienamente a causa della sua dimensione corporale. Il corpo è il limite della conoscenza, mentre, la coscienza o la dimensione coscienziale dell’uomo tenta un “oltrepassamento”, però, ricade spesso in uno stato onirico in cui vi trova i suoi limiti. L’intelletto, insomma, mette in scena tutta la sua tecnica della finzione.
È la socialità e l’aggregazione con gli altri che spinge nella specie umana una ricerca di una stabilizzazione in una sorta di “contratto civile” linguistico, che in realtà è la risoluzione di pace (Friedensschlus). Difatti la Verità sorge come una “risoluzione di pace”, ovvero, il superamento del Bellum omnium contra omnes. Insomma la Verità è un “enigmatico impulso” sorta come un “patto”, una “pacificazione”, un’ “uscita dallo stadio della guerra”. L’Impulso alla verità è un infrangere il muro del “Mors tua, vita mea” o dell’ “homo homini lupo”. Quindi per il “conseguimento di quell’enigmatico impulso alla verità” bisogna far scomparire lo stadio di ferinità dalla vita umana.
Quindi il 1° passo all’impulso della verità è la pacificazione da conflitto e dalla tensione. L’impulso alla verità è un trarsi fuori della guerra e corrisponde a un impulso verso la pacificazione.
Nietzsche riprende il tema dell’origine sociale del linguaggio e della coscienza, dal bisogno di protezione e comunicazione. Questo tema è ripreso in significativo anche nella Gaia Scienza (n° aforisma 354). L’origine convenzionale del linguaggio risalirebbe come Nietzsche stesso si chiede a Democrito, difatti, nell’edizione Diels-Krantz: << Democrito, invece, il quale afferma che i nomi sono per convenzione, sostiene la sua tesi con queste quattro dimostrazioni >>. Rincara la dose Aristotele nel suo De interpretazione: << Il nome è così suono della voce, significativo per convenzione >>.
Questo impulso alla verità in quanto “uscita dallo stadio della guerra” può rinviare all’ammirazione profonda che aveva Nietzsche per Eraclito. Difatti la lotta degli opposti (in quanto divenire e contrasto degli elementi) può avvicinarsi a questa visione della Verità (in quanto stabilizzazione del conflitto e superamento del conflitto). Quindi alla base dell’impulso alla verità si dà come un passaggio da una dimensione di guerra ad una di pace si dà nell’ Umwelt, ovvero, lo stare insieme gli altri nella realtà.
Come si trapassa dalla dimensione linguistica della “guerra” a quella di “Pace”? La pacificazione è il luogo di neutralizzazione generale e particolare, in cui si dà una definizione uniforme alle cose.
La “Friedensschluss” o la Risoluzione di Pace si gioca tutto sulla dimensione linguistica. Il linguaggio è il “tappeto” su cui può camminare la verità: 1) il linguaggio è la capacità di dire il simile e l’identico; 2) il linguaggio è la capacità di denominare le cose togliendole dall’anonimia. La Risoluzione di Pace è una stabilizzazione linguistica in quanto luogo dell’accordo e dello scambio. L’effetto principale della Friedensschluss è la neutralizzazione della dimensione del divenire.
La dimensione linguistica è valida e vincolante per tutti quando c’è “una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante”. Quindi la “legiferazione del linguaggio dà anche le prime leggi della verità”. La dimensione linguistica si pone come capacità di legiferare sul divenire, neutralizzando così le contese di “verità”.
Quindi la capacità prestigiatrice dell’Intelletto rivolta alla conservazione dell’individuo ha un’enorme importanza per quanto riguarda l’esistere sociale, in quanto la capacità prestigiatrice dell’Intelletto tratta la verità come risoluzione di pace e convenzione linguistica consuetudinaria. La natura convenzionale del linguaggio, così pattuita, serve a conservare la propria “differenza”, la propria “individualità”, obliando la dimensione “prestigiatrice” dell’intelletto, la sua impossibilità di cogliere l’interezza della realtà e l’impossibilità dell’intelletto porsi come il centro conoscitivo del mondo.
Ora pertanto si delinea il “contrasto fra verità e menzogna”. Il falso emerge quando il “mentitore” o colui che falsifica le designazioni linguistiche comune fa apparire come reale l’irreale. Il mentitore:
<< abusa delle convenzioni fisse attraverso scambi arbitrari o addirittura inversioni dei nomi >>.
Solo nel linguaggio si presenta il falso, in quanto implica anche la relazione con gli altri. Il mentitore fa apparire come reale l’irreale, sospendendo le definizioni o designazioni comuni riguardo all’espressione del vero. L’intelletto qui opererebbe in una “potenza dell’inganno”, un inganno alla seconda. Poiché i nomi convenzionali, frutto della risoluzione di pace basatasi sulla “Finzione” e la capacità prestigiatrice dell’Intelletto, vengono ora utilizzati dal mentitore per ingannare gli altri, ovverossia, per dire il falso.
Pertanto il mentitore viene identificato dalla società come un elemento di disturbo. Il mentitore ha l’intenzione, secondo gli altri, di minare o distruggere o danneggiare la società. Il risultato finale, da parte della società, sarà quello di mettere il mentitore ai margini della comunità. In un certo senso l’uomo cerca una “Verità” che conservi la vita. Riprendiamo il passo rivolgendoci al mentitore:
<< Se fa ciò per proprio interesse tra l’altro in modo da arrecare danno, allora la società non si fiderà di lui e per questo lo escluderà da sé. Gli uomini rifuggono in questo non tanto il venir frodati, quanto il venir danneggiati dalla frode. Essi in fondo anche in questo caso non odiano l’inganno, bensì le cattive, nocive conseguenze di certi generi d’inganni. In un simile senso limitato l’uomo vuole anche solo la verità. Egli desidera le conseguenze piacevoli della verità, che preservino la vita; rispetto alla pura conoscenza priva di conseguenze egli è indifferente, rispetto alle verità forse dannose e distruttive in una disposizione persino ostile. >>
Insomma trasgredire dal punto di vista linguistico, ovvero, dire il falso non mette in dubbio la costituzione naturale dell’Intelletto (già protesa verso l’inganno), ma ad essere messo in discussione è l’uso perverso dell’inganno. Pertanto il mentire agli altri viene condannato siccome è una conseguenza spiacevole della menzogna.
Mentre l’inganno, che di per sé fa parte della costituzione naturale dell’uomo, può divenire una conseguenza piacevole quando è riconosciuta in quanto verità. Questa Verità è “piacevole” poiché conserva la vita umana. Una verità/inganno, quando produce un danno proprio all’esistenza, è una condizione insostenibile da parte della verità.
Con Verità Nietzsche intende che è la passione del filosofo, il quale la ricerca sino ad annientarvisi. Questo è il piano conoscitivo. Il 2° piano è linguistico, in quanto la verità è un’illusione linguistica, obliata in quanto illusione, che sta all’origine convenzionale o comunque consuetudinaria (e quindi menzognera) dell’uomo e della convivenza umana.
Con Menzogna Nietzsche intende che sorge assieme alla verità, allorquando una risoluzione di pace fra gli uomini naturalmente in lotta fra loro esiga convenzioni linguistiche che stabiliscono universalmente, almeno limitatamente al gruppo sociale, le corrispondenze fra parole e cose in relazione all’utilità sociale e subordinatamente individuale, nonché le violazioni socialmente dannose (effettuate da chi quindi verrà escluso come mentitore) di tali convezioni divenute poi, attraverso l’assuefazione dell’abitudine, tradizionali consuetudini. La menzogna non riguarda quindi soltanto specificamente il mentitore, ma la generale costituzione stessa della verità, poggiando essa su una convenzione comune intrinsecamente menzognera, obliata nel tempo e con le consuetudini relativamente alla sua origine non veritiera.
Le convenzioni linguistiche rispondono davvero a un’espressione adeguata di ogni realtà? Fino ad ora sappiamo che la società, dopo aver effettuato una risoluzione di pace dal punto di vista linguistico, odia le conseguenze e gli effetti dell’inganno. La società presenta una forte ostilità nei confronti di inganni o verità distruttive la stessa esistenza.
Il linguaggio è l’espressione adeguata di ogni realtà? La menzogna riguarda la verità stessa, che si poggia su una convinzione obliata, menzognera e consuetudinaria. Alla base di ogni designazione linguistica c’è l’oblio, che poi copre i diversi errori. C’è adeguatio rei intelletto? L’illusione è barattata in quanto verità in modo da conservare la stessa vita.
Che cos’è la parola? È la raffigurazione in suono di uno stimolo nervoso. Con raffigurazione si intende un’attività metaforizzatrice intrinsecamente non veritiera.
Con stimolo nervoso si intende l’immagine, il suono, la parola, il concetto senza che qualcosa di esterno all’uomo lo determini e senza che abbia dei rapporti intrinseci con la cosa designata.
Con la parola indichiamo un’applicazione falsa e ingiustificata del principio di ragione. La frase: la pietra è dura, non tiene conto della stimolazione del tutto soggettiva. Difatti questo tipo di frase è un’arbitraria traduzione o un’arbitraria delimitazione. Difatti il linguaggio è il risultato di una traduzione soggettiva che poi diventa valida per tutti e diviene oggettiva. Ovvero questa designazione oggettiva viene trasmessa agli altri come obbligatoria e poi riceve il consenso data che è valida per tutte. Nietzsche afferma:
<< Le differenti lingue poste l’un l’altra accanto mostrano che con le parole non si giunge né alla verità, né ad un’espressione adeguata: perché altrimenti non ci sarebbero così tante lingue. La “cosa in sé” (questa sarebbe proprio la pura verità senza conseguenze) è anche per colui che forma un linguaggio del tutto incoglibile e per niente degna d’aspirazione.
Egli designa soltanto le relazioni delle cose rispetto agli uomini, prendendo per le espressione delle quali le più ardite metafore in ausilio. Uno stimolo nervoso anzitutto tradotto in un’immagine! 1° metafora. L’immagine nuovamente riprodotta in un suono! 2° metafora. E ogni volta completo saltar oltre di sfera, nel bel mezzo di una del tutto altra e nuova. >>
Le coordinate dell’arbitrio e della convenzione sono un iniziale arbitrio soggettivo, che corrisponde ad un’arbitraria designazione linguistica. Questa arbitraria designazione linguistica non è il “noumeno” o la cosa in sé dell’oggetto indicato, come pretenderebbe di individuare, ma piuttosto è frutto di un’attività metaforizzatrice. Noi, insomma, “tagliamo” la totalità dell’essere in tante forme linguistiche. Quindi non si giunge né alla verità né a un’espressione adeguata a causa della Babele linguistica.
Quindi il Noumeno, o “cosa in sé”, non designa le forme intuitive della ragione kantina (spazio e tempo) e nemmeno la griglia delle categorie kantiane. La “cosa in sé” per Nietzsche resta qualcosa di indeterminato e non è colta da un linguaggio arbitrario. Il linguaggio non coglie l’essenza delle cose ma produce un bagaglio linguistico che proviene dal paese della “cuccagna fra le nuvole” e non dell’essenza delle cose. Il linguaggio procede per metafore quindi non coglie l’essenza delle cose:
<< Noi crediamo di saper qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di alberi, colori, neve e fiori e tuttavia non possediamo che metafore delle cose, che non corrispondono per niente alle essenzialità originarie. Come il suono in quanto figura di sabbia, così l’enigmatica X della cosa in sé si presenta dapprima in quanto stimolo nervoso, poi in quanto immagine, infine in quanto suono. In ogni caso non vi è dunque nulla di logico in merito al sorgere del linguaggio, e l’intero materiale, in cui e con cui in seguito l’uomo della verità, il ricercatore, il filosofo lavora e costruisce, proviene, se non da un paese della cuccagna fra le nuvole, in ogni caso non certo dall’essenza delle cose >>.
Pertanto la dimensione linguistica è la capacità di designare le cose, ovvero, è la facoltà di nominare ed indica che qualcuno si pone in relazione a qualcos’altro in funzione di una futura stabilizzazione delle relazioni sia linguistiche che sociali. Il linguaggio, per Nietzsche, si forma per metaforizzazioni e trasposizioni della relazione linguistica. Il linguaggio però è una distanza, ovvero, non giunge alle cose in sé per sé, altrimenti il campo della doxa, della designazione arbitraria, risulterebbe conoscenza. Difatti l’episteme è una designazione neutra, assoluta del vero, contro le “fluttuazioni” illusorie della doxa. Nietzsche, anche se in polemica con l’eleatismo, riprende dei temi molti cari a Parmenide: l’Episteme e la doxa.
8° Lezione: La formazione del concetto come obliante uguagliare il non-uguale
Il sorgere del linguaggio è arbitrario per Nietzsche e non nulla di logicamente aderente al “Principio di Ragione”[16]. Con principio di Ragione indichiamo una “ratio” di ciò che è, ovverossia, l’applicazione di un principio di ragion sufficiente. Con “Principio di Ragione” si può affermare come una “Verità di ragione” o “Verità di fatto”.
Nietzsche considera questo Principio di Ragione come sbagliato, in quanto è una causa fuori dall’uomo e dal linguaggio. Secondo Nietzsche la spiegazione linguistica non può uscire dalla dimensione umana altrimenti sarebbe un’inferenza illogica, oppure, uno stimolo fuori di sé.
Domandiamo: ciò che si cerca, ovvero l’essenza delle cose, è dentro la cosa stessa? Oppure è dettata dalla connessione con lo stimolo nervoso? Qual è la vera applicazione del principio di ragione? È impossibile il principio di ragione?
Perché l’essenza è? Cosa si manifesta?
Siamo innanzitutto in una posizione di attesa e di aspettativa (in questo caso delusa). Siamo in una posizione desiderante in quanto ricerca di qualcosa e soprattutto se la nostra posizione viene delusa e disillusa allora si propongono nuove formulazioni riguardo ai perché.
Difatti il “Principio di Ragione” cerca di porsi come un principio di contestazione e di ritessitura successiva. Il Principio di Ragione si determina in quanto attesa desiderante di qualcosa. Poi si determina qualcosa di diverso nella sua manifestazione e una conseguente delusione. Infine si ricerca una nuova causa delle cose. Questo movimento è descrivibile dal famoso aforisma: “L’Essere piuttosto che il nulla”. Tutto ciò genera un’attesa per qualcosa con una forte contrapposizione fra ciò che è e ciò che non è.
Il “Principio di Ragione” articola la domanda sull’Essere di qualcosa e domanda successivamente la sua origine. Tutto ciò implica che la ragione di ciò che c’è, è proprio quella di ricercare la causa prima o principale da identificare come inizio scaturente dell’origine.
Questa domanda cerca di porre freno alla disposizione umana di “frastornare” la vita di fronte a tutto ciò che ci si presenta. Questa disposizione umana di “frastornare” la vita si pone in relazione con la metafora del bambino chiedente. Qui interviene la ragione, che cerca di porre tempo e di intervallare, ovverossia, cerca di mettere tempo fra l’attesa e il suo perché. Tutto ciò dovrebbe sospendere il cortocircuito del caos della vita.
Il “noumeno kantiano” è dato dalla formazione del concetto, in quanto presa d’insieme o nesso legante le parti e l’intero.
Ma come si forma un concetto per Nietzsche in Su Verità e Menzogna in senso extramorale?
<< In particolare pensiamo ancora alla formazione dei concetti: ogni parola diventa subito concetto per il fatto che essa precisamente non deve servire all’incirca come rammemorazione per l’esperienza originariamente vissuta, unica e del tutto individualizzata, cui deve il suo sorgere, bensì deve necessariamente andare bene a un tempo per casi innumerevoli, più o meno simili, cioè in senso rigoroso mai uguali, dunque semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge dall’uguagliare il non-uguale. >>
Ogni concetto sorge dall’uguagliare il non-uguale, in modo che più casi valgano contemporaneamente in quell’unico caso.
Il concetto è un “concepire” (der Begriff, begreiden). Sorge dall’uguagliare il non-uguale, cioè dal far valer per più casi simili una designazione comune, astratta dall’esperienza vissuta, sempre singolare, di ciascun caso o cosa o individualizzazione. È in ultima analisi un residuo di una metafora, una volatilizzazione, astratta, asettica, fredda, irrigidita, di più parole o metafore intuitive la singolarità di ogni individuum, benché la metafora stessa non corrisponda all’essenza o in sé della cosa individuata né sia nemmeno causata dallo stimolo nervoso che la occasioni.
La cosa in sé o l’essenza della cosa non è coglibile né ciò sarebbe comunque auspicabile. La cosa non è certo causa delle immagini (metaforiche) che ce ne facciamo, dei suoi significanti, delle parole e dei nomi con i quali la designiamo invece arbitrariamente, convenzionalmente o consuetudinariamente, né dello stimolo nervoso in occasione del quale le attribuiamo tali designazioni totalmente metaforiche e antropomorficamente soggettive.
La costruzione dei concetti è un’imitazione dei rapporti numerici delle originarie forme spazio-temporali presupposte ad ogni sensazione umana sul piano delle metafore, cioè una riproposizione di essi nella costruzione concettuale, attraverso l’utilizzo del materiale dato dalle metafore, anziché nella più diretta e intuitiva formazione metaforica di cose in occasione di stimoli nervosi.
Il calco linguistico raggruppa i tratti somiglianti per poi renderli equivalenti. La parola è un’operazione utilizzata, che ci permette di raggruppare le differenze e le altre qualità, per poi far sorgere un non-uguale. Il “Concetto” è un “uguagliare il non-uguale”, ossia si raggruppano i significati per concentrarli in un nome solo e successivamente dal processo di astrazione si passa a una successiva riunificazione. Il conetto radicalizza la somiglianza al punto tale che non c’è più alcuna differenza, così facendo mette in risalto la funzione dell’oggetto.
Con il concetto c’è un’unificazione di tutte le possibili specie, raggruppandole in un’unica categoria. L’intelletto e la capacità prestigiatrice dell’intelletto da un lato mettono tempo e dall’altro tolgono, perché da un lato fissano linguisticamente la realtà e dall’altro sottraggono o eliminano l’oggetto dal fluire del divenire. Quindi la prassi del pensare linguistico necessita di una “costruzione linguistica” soprattutto temporale. Difatti la concettualizzazione (ci viene in mente la nota “cavallinità” di Platone) prevede un valicare l’esperienza individuale della singola e anche dell’esperienza ad essa connessa.
Uguagliare il non uguale significa un livellamento e un’assimilazione delle differenze con conseguente fase di concettualizzazione.
<< Quanto è certo che mai una foglia è del tutto uguale ad un’altra, così è certo che il concetto foglia è formato attraverso l’arbitrario lasciar cadere queste diversità individuali, attraverso un oblio di ciò che è da differenziarsi, e che allora suscita la rappresentazione di come se in natura si desse qualcosa al di fuori delle foglie che fosse “foglia”, all’incirca una forma originaria secondo la quale tutte foglie fossero tessute, disegnate, misurate, colorate, increspate, dipinte, ma da inesperte mani, tanto che nessun esemplare fosse riuscito corretto e attendibile in quanto fedele riproduzione della forma originaria >>
Ogni foglia è diversa, pertanto, il concetto di “Foglia” lascia cadere nell’oblio ogni diversità individuale. Ma “Foglia” o il suo concetto non corrispondono al “noumeno” di quell’oggetto e nemmeno corrisponde all’essenza delle cose.
Continua Nietzsche:
<< Noi chiamiamo un uomo onesto; perché si è oggi così onestamente comportato? Domandiamo. Solitamente la nostra risposta suona: a causa della sua onestà. L’onesta! Ciò significa di nuovo: la foglia è la causa delle foglie. Noi non sappiamo proprio nulla d’una qualità essenziale che si chiami onestà, invece, sappiamo certamente di numerose azioni individualizzzate, quindi disuguali, che uguagliamo attraverso il tralasciare il disuguale e allora designiamo quali azioni oneste; infine in base ad esse formuliamo una qualitas occulta con il nome: onestà. >>
Noi non sappiamo nulla di una qualità o di un concetto, ad esempio come nel caso dell’onestà e della foglia. Con la una qualità o un concetto indichiamo con una sola parola tutti quei casi che si riuniscono in una sola parola e perdono le differenze individuali [1) dell’esperienza in cui sono sorte; 2) della singola parola espressa per quel concetto]. Noi sappiamo di tante azioni, fra loro disuguali, che uguagliamo tralasciando il disuguale e ne diamo una designazione generale. Quindi noi ci serviamo di una “qualitas occulta” per descrivere il “Noumeno” oppure per concettualizzare con la qualità di “Onestà” o la parola “Foglia”.
9° Lezione: Il “sentimento della verità” come moto morale
Il concetto, in quanto concepire [der Begriff, begreifen], sorge dall’uguagliare il non-uguale, cioè dal far valer per più casi simili una designazione comune, astratta dall’esperienza vissuta, sempre singolare, di ciascun caso o cosa o individualizzazione. È in ultima analisi un residuo di una metafora, una volatilizzazione, astratta, asettica, fredda, irrigidita, di più parole o metafore intuitive la singolarità di ogni individuum, benché la metafora stessa non corrisponda all’essenza o in sé della cosa individuata né sia nemmeno causata dallo stimolo nervoso che la occasioni.
La concettualizzazione della natura consiste nella presa in carico della differenziazione di ogni individuum, ossia, è tutta un’operazione di svuotamento in quanto è ritenuta in base ad una “Risoluzione di Pace linguistica” come una giusta percezione o giustezza. Tutto ciò è un obliante procedura arbitraria del linguaggio, per mezzo dell’intelletto e della sua capacità prestigiatrice, che ci fornisce un’aderenza linguistica fra parola e oggetto, che non potrà mai cogliere l’essenza delle cose. Nietzsche afferma:
<< Non vedere l’individuale e reale ci dà il concetto così come ci dà anche la forma, mentre al contrario la natura non conosce nessuna forma o concetto, né genere alcuno, bensì soltanto una X per noi inaccessibile e indefinibile. De resto anche la nostra contrapposizione di individuo e genere è antropomorfica e non deriva dall’essenza delle cose >>
L’X delle cose o l’essenza delle cose per la Natura va oltre ogni possibilità di formalizzazione, concettualizzazione o comprensione. Siamo noi cha antropomorficamente uguagliamo il non uguale per porci al riparo dopo una “Risoluzione di Pace linguistica”.
Che cos’è dunque la Verità? Vediamo Nietzsche cosa risponde:
<< Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di umane relazioni che, elevate poeticamente e retoricamente, tradotte, vennero adornate, e che dopo lunga consuetudine parvero a un popolo fisse, canoniche, vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che siano tali, metafore, che sono divenute consunte e sensibilmente prive di forza, monete, che hanno perduto la loro immagine e che ora son considerate come metallo, non più come monete >>
La somma delle relazioni umane produce e stabilisce un “Regno delle Verità” rispetto all’iniziale “Regno dell’apparenza”, con cui l’uomo interagisce all’inizio. Dopo la prima fase di “metaforizzazione” o dopo una prima fase poetica, l’uomo compie operazioni di traduzione, di trasduzione, di volatilizzazione delle metafore, che sono operazioni tipicamente antropomorfiche. Spieghiamo cosa sono “metafore” e “Relazioni umane”.
La metafora è ogni designazione significante, in quanto trasposizione in altra sfera di alcunché da significarsi.
Le relazioni sono metafore, immagini, suoni, parole, concetti, schemi. Le relazioni sono antropomorfisimi, atti a designare le cose non in se stesse, ma relativamente a noi in quanto soggetti artisticamente creativi attraverso l’attività metaforizzatrice dell’umana fantasia.
La verità, pertanto, è un “mobile esercito di metafore” che in seguito vengono concettualizzate sotto la parvenza di antropomorfismi, insomma, sono “Relazioni umane”. Le relazioni umane, per consuetudine, producono fissazioni o unificazioni di significati linguistici, e in seguito di verità, attraverso l’oblio della loro originaria artificiosità (dovuta all’intelletto) e illusorietà (1] perché sono ritenuti veri in sé e per se, mentre, sono solo dei concetti creati dalla capacità prestigiatrice dell’Intelletto; 2] perché questi antropomorfismi non colgono mai la cosa in sé o l’ X delle cose o il Noumeno delle cose). La Verità è l’illusione linguistica, obliata dalla sua origine, e che si reitera in base alla convenzione e alla consuetudine, puramente umana di ricercare una “tranquilla” convivenza umana.
La traduzione, per Nietzsche, in base a questo passo riportato, indica già qualcos’altro dall’ X delle cose o dal Noumeno delle cose, andando al di là dello stesso oggetto. Nietzsche utilizza il verbo “adornare” per asserire che queste soluzioni o traduzioni linguistiche vengono rese visibili a tutti e in seguito accettate da tutti. Difatti, attraverso la trasmissione, con la forza dell’abitudine e consuetudine, quelle traduzioni, quelle illusioni, quelle metafore, quegli antropomorfismi diventano canonici e soprattutto divengono il “criterio della verità”. Quindi la “tradizione” linguistica rende quelle illusioni, quelle metafore, quelle illusioni del tutto indissolubili, assumendo la facoltà o ragione di nominare le cose e “parvero a un popolo fisse, canoniche, vincolanti”.
La conclusione è che le parole, determinandosi come inziale fase di “poeticizzazione” e “retoricizzazione” della realtà apparente, stabiliscono la natura della verità in quanto antropomorfica. La verità sono illusioni, alla cui base c’è un’operazione, che mette in rilievo l’importanza dell’oblio e della dimenticanza. Pertanto la verità ha un’origine illusoria, metaforica, consuetudinaria, menzognera, morale (derivante dalla “Risoluzione di Pace”), ma soprattutto obliosa. Il “dimenticare” è estremamente funzionale per fissare consuetudinariamente un mondo o un realtà, in modo che continui ad essere. Ma per Nietzsche la realtà è in continuo divenire, trasmutazione, cambiamento e addirittura per Nietzsche è impossibile conoscere la Natura e il “Noumeno” delle cose tramite degli antropomorfismi (suoni, metafore, concetti, Relazioni Umane), che in realtà sono prodotti dalla capacità prestigiatrice dell’intelletto e dalla ricerca dell’auto-conservazione dell’uomo (qui rientra anche la disamina di Nietzsche riguardo alla Friedensschluus).
Le verità sono illusioni, ma sono anche un “esercito di metafore”, che divenute consunte e sensibilmente piene di forza, dimostrano di essere delle illusioni di cui abbiamo dimenticato l’origine. Le illusioni o le Metafore in quanto metalli indicano che il “Regno della Verità” si dà per un’origine illusoria, metaforica, consuetudinaria, menzognera, morale, antropomorfica, obliosa della verità. Quindi le illusioni e le metafore sono appartenenti alla specie umana, piuttosto che dal mondo esterno o dal “Noumeno” delle cose.
Da donde deriva l’ “impulso alla Verità”. Riprendiamo il passo riguardo all’ “impulso alla Verità”:
<< Noi sempre ancora non sappiamo donde derivi l’impulso verso la Verità: giacché sinora noi abbiamo solamente ascoltato dell’obbligo, che la società impone per esistere, di essere veritieri, cioè di utilizzare le metafore usuali, dunque moralmente espresso: dell’obbligo di mentire secondo una convenzione fissa, di mentire a branchi, in uno stile vincolante per tutti. Ora l’uomo naturalmente dimentica che in relazione ad esso le cose stiano così; egli dunque mente nella maniera indicata incoscientemente e per abitudini secolari e giunge proprio “attraverso questa incoscienza”, proprio attraverso quest’oblio, al sentimento della verità.
Con il sentimento d’esser obbligati a designare una cosa come rossa, un’altra come fredda, una terza come muta, sorge un moto morale in relazione alla verità: dal contrasto con il mentitore, cui nessuno crede, che tutti evitano, l’uomo dimostra a se stesso quanto la verità sia degna d’onore, di fiducia e sia utile. In quanto essere “razionale” egli pone ora il suo agire sotto il dominio delle astrazioni: non sopporta più di venir trascinato dalle impressioni improvvise, dalle intuizioni, generalizza tutte queste impressioni appena in concetti scoloriti, freddi, per legare ad essi il carro del suo vivere ed agire. Tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale dipende da questa capacità, di volatilizzare le metafore intuitive in uno schema, dunque di risolvere un’immagine in un concetto>>
L’impulso è Trieb, ovvero, spinta, pulsione, forza tesa verso qualcosa. L’impulso o istinto, per Nietzsche in questo scritto, è fondamentale per l’uomo in quanto è atto alla formazione di metafore, all’attività metaforizzatrice scaturente dalla sua fantasia. In questo caso la “spinta alla ricerca della verità” o l’istinto alla verità o la pulsione alla verità è una tendenza a rendere uguale il non-uguale. Questa spinta, tesa a rendere uguale il non-uguale, ha una direzione non predeterminata e non definitiva, mutandosi in base agli “antropomorfismi” o “relazioni umane”. Rispetto al Trieb freudiano, che è diretto soprattutto verso la sessualità e dall’Es, il Trieb zum Wahrheit è uno spingersi verso un’ “anonimato linguistico”. Il Trieb zum Wahrheit diviene un’obbligazione in quanto è una spinta vivente alla caccia della verità e di dire la verità. Le conseguenze del Trieb zum Wahrheit è quella di porre il soggetto nell’impulso di dire il vero e di non ingannare l’altro, altrimenti questa soggettività è destinata all’esclusione o alla dissoluzione dalla società stessa. Questo aspetto di hobbesiana memoria, o meglio di “diritto hobbesiano”, è data da una somma di individui, che coesistono e trovano la volontà di stare e vivere insieme, allorquando vi è una “Risoluzione di Pace” e soprattutto una “Risoluzione di Verità” (ovvero il Trieb zum Wahrheit), che li rassicuri sulla propria esistenza e garantendo l’autoconservazione, proprio tenendo lontano la pericolosità dell’inganno e del mentitore. Tutta questa operazione linguistica-morale (o extra-morale) è per Nietzsche del tutto antropomorfica. Tutto ciò è alla base di essere veritieri e di utilizzare le metafore consuetudinarie poiché questo obbligo è richiesto dalla stessa società per poter esistere. Quindi “non mentire” è un obbligo imposto dalla società, e ciò si origina per Nietzsche sotto-forma di antropomorfismi, di abitudini e di consuetudini.
Quindi la società impone l’obbligo di essere veritieri. Questo obbligo esplica il “legame fondativo” di essere “menzogneri” (ovvero fare ricorso ad illusioni linguistiche, che in realtà sono scambiate per verità) per essere “veri” (ovvero individuare delle verità linguistiche dopo una Risoluzione di Pace, in modo da escludere dalla società chi viene individuata in quanto mentitore). L’inganno, in tal modo, è costitutivo proprio dell’intelligere. L’obbligo di essere veritieri è di prendere le convenzioni linguistiche come vere in modo da escludere il pericoloso mentitore dalla stessa società. Ma già abbiamo riferito di come le traduzioni o le stesse parole, in realtà, sono già di per sé delle illusioni o delle menzogne, in quanto non spiegano nulla riguardo al caos della natura o all’X delle cose o al Noumeno delle cose.
L’impulso alla verità (der Trieb zum Wahrheit) è mosso proprio dallo stare assieme o dalla stessa società dall’escludere gli “impulsi omicidi” verso l’altro. Questi impulsi omicidi sarebbero interpretati dal mentitore. Pertanto con il “sentimento d’essere obbligati a designare una cosa come rossa” (ovvero il linguaggio o la comunicazione) sorge “un moto morale in relazione con la verità” (il contrasto al mentitore per un “diritto hobbesiano” della società di preservare la Vita e di conservazione dell’esistenza).
La conservazione dell’esistenza avviene grazie all’inganno e non più tramite l’omicidio. L’inganno e l’arte prestigiatrice dell’uomo sono costitutivi dell’uomo stesso. L’incoscienza o l’oblio della differenza dei vari individuum linguistici (1 parole; 2 esperienza in cui viene elaborata la parola) sono momenti precipui e precedenti al “Sentimento della verità”. Il “Sentimento della verità” è un’operazione legata all’oblio e questa “dimenticanza delle cose” comporta una stabilizzazione linguistica, altrimenti ci troveremmo nel caos se non introducessimo una “cesura della verità”. Lo sdoppiamento obbliante, ovverossia, scambiare l’incapacità dell’intelletto umano di comprendere l’essenza delle cose con la Verità, diventa davvero rilevante per la società. Questa doppiezza o sdoppiamento è ritenuto necessario e questo vivere nella “doppiezza”, che viene obliato dall’uomo. Il “mondo vero” o presunto tale deve valere per l’uomo calato nella società. La ricerca della verità è una ricerca della stabilizzazione, sia linguistica e sia esistenziale, dimenticando o obliando l’origine illusoria, metaforica, consuetudinaria, menzognera del linguaggio stesso, che non saprà mai cogliere il “noumeno” delle cose o l’essenza delle cose. Quindi questa doppiezza conoscitiva viene scambiata come il “mondo delle verità oggettive”.
Il “moto morale in relazione alla verità” è sentito come spinta verso una stabilizzazione della verità al fine di conservare il Sé e gli altri, poiché questa “obbligazione” morale in relazione alla verità deve valere nella realtà intersoggettiva.
Ci chiediamo ma che cos’è un sentimento? È qualcosa che si sente, pertanto è un impulso. Quando la spinta diviene sentimento che cosa avviene? Secondo Nietzsche questo “sentimento della verità” è sorto dall’oblio di identificare le verità in quanto illusioni o volatilizzazioni di metafore (o concetti) che non riusciranno mai a cogliere il “Noumeno” delle cose.
Il “Sentimento della verità”, ovvero quello di non ingannare l’altro o di non nuocere l’altro, è incorporato dall’Io in quanto difesa della voce dell’altro dentro di me. Questo “sentimento della verità” è dentro l’Io poiché coglie la pericolosità del possibile mentire l’altro. Il “sentimento della verità” è sentimentalizzato dall’Io, che lo sente, ovvero è interiorizzata la voce di dire la verità al fine di non nuocere agli altri come la propria voce. Questa voce esterna del “sentimento della verità”, in quanto Friedensschluss, diventa una voce introiettata nell’Io dagli altri e dai pericoli che ne possono sorgere dal mentire gli altri. Questo sentimento è sentito dagli altri, ma soprattutto dall’io, che ripete la voce esterna, quella del “sentimento della verità” come la propria voce. Perciò il “sentimento della verità” ha una dimensione morale. Il terreno della morale è dettato, infatti, dalla scelta del singolo di introiettare questa voce, ovvero il “sentimento della verità”, nello spazio interiore riguardo al proprio modo di comportarsi.
Pertanto la Verità è sia degna di onore, di fiducia e sia utile poiché estingue la figura di chi può diventare un futuro mentitore. Tutto ciò traduce il “sentimento della verità” in quanto Trieb verso la stabilizzazione della verità in modo da preservare l’esistenza dell’Io e degli altri. Pertanto il “sentimento della verità” diventa un moto morale in relazione alla verità, divenendo un’operazione di obbligazione e interiorizzazione della verità. Il non mentire assume una forma di utilità poiché fondamentale per vivere nella società e comporta l’esclusione del mentitore, in quanto il mentitore impossibilita il riconoscimento dell’altro, mentre, il sentimento della verità o il non mentire è legato alla logica di voler esser riconosciuto dall’altro. Pertanto mi conviene non mentire e aderire al verbo degli altri in modo che accetti l’obbligo di dire il vero in società.
Quindi intuiamo il sorgere “genealogico” della Menzogna. A causa di una Risoluzione di Pace gli uomini stabiliscono delle uniformità linguistiche, riconosciute come verità, ma stabiliscono anche le violazioni ritenute socialmente dannose, ovvero le menzogne. Quindi verità e menzogna poggiano su una convenzione illusoria, obliata e consuetudinaria.
Il comportamento, assunto dopo aver percepito il “sentimento della verità” in quanto moto razionale verso la verità, assume un andamento “onesto” perché viene assunto in quanto “razionale”. In che cosa siamo tutti “irrazionali”? Ogni volta che ci comportiamo con sentimento. La razionalità è un rallentamento o sospensione dell’automatismo e soprattutto di allontanarsi dalla condizione primitiva dell’animale. “Piegare” la vita in una dimensione astrattiva significa rallentare, ma soprattutto significa allontanarsi da un modo di essere immediato, quale l’ “Io sento”, che è un moto di aggressione o meglio è un metter tempo fra ciò che sento e la sua azione.
Tutto ciò comporta nell’uomo la possibilità di distinguerlo dall’animale, ma soprattutto dotarlo della capacità “di volatilizzare le metafore intuitive in uno schema, dunque di risolvere un’immagine in un concetto”. Lo “Schema” è sinonimo di concetto, ovverosia, è un’astrazione uniformizzante razionalmente differenti metafore intuitive, rese spettrali, che siano immagini, suoni, parole, perdendone la significatività individualizzante: individuante e individuale.
Nietzsche afferma che:
<< Nell’ambito di quegli schemi è infatti possibile qualcosa che non potrebbe mai riuscire sotto le prime impressioni intuitive: costruire un ordine piramidale secondo caste e gradi, creare un nuovo mondo di leggi, privilegi, subordinazioni, limitazioni, che ora fronteggi l’altro mondo intuitivo delle prime impressioni, come il più stabile, più generale, più conosciuto, più umano fra i due e perciò come il regolativo e imperativo.
Mentre ciascuna metafora dell’intuizione è individuale e senza proprio uguale e perciò sa sempre sfuggire ad ogni catagolazione, la grande costruzione dei concetti mostra la rigida regolarità di un columbarium romano ed esala nella logica di quella rigorosa precisione e freddezza propria alla matematica.
Chi sia ispirato da questa freddezza potrà credere a malapena che anche il concetto, d’osso e a otto facce come un dado e movibile come quello, tuttavia rimanga solo in quanto residuo d’una metafora, e che l’illusione della traduzione artistica di uno stimolo nervoso in immagini, se non la madre sia almeno la nonna di ciascun concetto >>.
I concetti o gli schemi formano un colombarium romano, ovvero, un cimitero, che è simbolo della morte della creatività delle prime metafore. Difatti il concetto è come un residuo di una metafora o lo scheletro della metafora.
Quindi lo schema è solo una “forma” delineante una realtà, che non sarà mai colta nel suo essere da alcun schema. La modalità della schematizzazione è “scarnificare” o avere solo lo scheletro delle metafore intuitive individualizzanti e individuali. La realtà è cercata di essere colta tramite il linguaggio avvalendosi dei concetti. Quindi si coglie la “razionalità” in merito alla dimensione linguistica di individuare degli schemi o dei concetti: si tratta di un’operazione di “de-impressione” o di lasciare il tracciato iniziale del “sentimento della verità” e di razionalizzarlo, individuando dei concetti o degli schemi volatilizzando le iniziali metafore intuitive.
Individuare degli schemi o delle metafore volatilizzate significa imporre un ordine piramidale o un mondo di leggi, che sostituisca l’iniziale modalità intuitiva delle nostre metafore o impressioni.
Il linguaggio o le concettualizzazioni cercano di rendere stabile ciò che è instabile, ovvero, il mondo. Imponendo un ordine piramidale, linguistico tramite i concetti, noi abbiamo la possibilità di vivere e stare al mondo, individuando delle regole o degli imperativi che costituiscono la cornice dello schema del mondo e dei nostri stessi schemi o concetti.
La costruzione dei concetti permette di manifestare la “rigida regolarità di un colombarium romano”. Questo passo significa che il concetto mira al livellamento delle cose, ovvero, mira ad “uguagliare il non uguale”. La costruzione dei concetti, in quanto livellamento delle cose, assomiglia alla costruzione mortuaria (il colombarium romano) ove si pongono le ceneri dei corpi o delle cose. “Ridurre in cenere” è il modo di considerare le cose, il mondo attraverso il linguaggio e la costruzione dei concetti. Sembra profeticamente risuonare il “ricorda che sei polvere e polvere resterai”[17]. Il regno del concetto assomiglia a una condizione mortuaria, che fa “sopravvivere” solo degli “schemi spettrali o scheletrici”. Qui l’equiparazione fra il colombarium e la matematica significa ridurre la realtà a simboli o numeri.
Rimane la domanda: che cos’è la verità?
<< Ma all’interno di questo gioco di dadi dei concetti si chiama “verità”: adoperare ogni dado così com’esso è designato; contare precisamente i suoi punti, formare rubriche esatte e non sovvertire mai l’ordine di caste e la successione per rango delle classi. Come i romani e gli etruschi suddividevano il cielo attraverso rigide linee matematiche e in un delimitato spazio siffattamente misurato confinavano come in un templum un dio, così ciascun popolo ha sopra di sé un siffatto cielo concettuale matematicamente ripartito e intende allora per esigenza di verità che ciascun dio concettuale venga ricercato solo nella sua sfera.
Si può qui ben ammirare l’uomo come un potente genio costruttivo, a cui riesce di erigere una volta concettualmente infinitamente complicata su mobili fondamenta e per così dire su acqua corrente; certamente, per trovar sostegno su siffatte fondamenta dev’esser necessariamente una costruzione fatta come di ragnatele, così delicata da lasciarsi portare insieme dalle onde, così stabile da non venir soffiata via lontano dal vento. Come genio costruttivo l’uomo si erge in tal misura molto al di sopra dell’ape: questa costruisce con la cerca che raccoglie dalla natura, egli con il materiale molto più delicato dei concetti che deve necessariamente fabbricarsi solo da sé.
Egli è in ciò degno di grande ammirazione ma solo non a causa del suo impulso verso la verità, verso la pura conoscenza delle cose. Se qualcuno nasconde una cosa dentro un cespuglio, proprio là nuovamente la cerca e anche la trova, allora in questo cercare e trovare non v’è molto da elogiare: ma è così che stan le cose con il cercare e trovare la “verità” all’interno della circoscrizione-ragione.
Se formulo la definizione di mammifero e poi dichiaro, alla vista di un cammello: “Guarda, un mammifero”, con ciò è allora portata indubbiamente alla una verità, tuttavia essa è di limitato valore, io credo, essa è da parte a parte completamente antropomorfica e non contiene alcun singolo punto che sarebbe “vero in sé”, realmente e universalmente valido, a prescindere dall’uomo. >>
La verità in quanto gioco di dadi dei concetti indica che la casualità diviene una causalità in quanto causa di mostrare che “è così come si dice e così come si mostra”.
Perché il dado viene individuato come pietra fondatrice della verità? Cosa significa? Cosa significa connettere il gioco e la verità e la necessità?
C’è un riferimento testuale di Platone nella Repubblica. La verità è l’effetto di un gioco di dadi e il dado è simile alla costruzione ed è importantissimo il lancio dei dadi. La struttura concettuale è un lancio di dadi in cui la verità relativa al lancio di dadi che ha fatto, in questo caso del linguaggio.
I concetti sono strumenti di un gioco o di una relazione con il mondo, le parole, le cose e i dati. I concetti sono “giocati” in modo da stabilizzare la realtà e la verità. La verità è adoperare ogni dado così come esso è designato. La verità è un sentire la coerenza delle regole date. Tutto ciò non toglie o non spiega un mondo casuale o posto a caso, ma mi ritorna tramite il linguaggio una causalità, la spiegazione di una causa proprio tramite il linguaggio.
La “costruzione della verità” è un gioco costruito, regolamentato. Il dato, qui linguistico, è il risultato solo di un lancio. Con il dato contrassegnato c’è l’eliminazione della casualità. Pertanto la verità ha il compito di dare una regola alla casualità. La verità è uno strumento utile a far uscire la casualità. La verità elimina la casualità.
L’universalità della verità deve valere al di là del soggetto che la dice. L’essere delle cose, l’essenza delle cose, l’X delle cose viene “costruita” dal linguaggio. La realtà, in base al “sentimento della verità” in quanto moto morale in relazione alla verità, diviene “una” con l’accordo con gli umani in modo da stabilizzare il mondo grazia ad una fede di credenza relazionale e relativa che è in grado di dare un ordine al mondo. Questo è il processo della “costruzione di una verità”.
La verità si illanguidisce nel formare rubriche esatte, ovvero, la verità è una “costruzione di ragnatele” che si adatta anche alla “turbolenza” della Natura, ossia, all’impossibilità di conoscere realmente la Natura tramite dei concetti.
Difatti ogni “Verità-concetto” è antropomorfica e non è “vera in sé”. La verità è una “volta concettuale” che poggia sulla Natura sempre mobile e incomprensibile. Insomma l’uomo è come un “ape concettuale” poiché è l’uomo ad aver messo in piedi questa “costruzione”, una “costruzione della verità” come “costruzione di ragnatele”.
10° Lezione: L’uomo è misura di tutte le cose?
Riprendiamo l’ultimo stralcio commentato per poi continuarne la lettura (siamo a pagina 99 di Su Verità e Menzogna in senso extramorale, edizione Bombiani).
<< Se formulo la definizione di mammifero e poi dichiaro, alla vista di un cammello: “Guarda, un mammifero”, con ciò è allora portata indubbiamente alla una verità, tuttavia essa è di limitato valore, io credo, essa è da parte a parte completamente antropomorfica e non contiene alcun singolo punto che sarebbe “vero in sé”, realmente e universalmente valido, a prescindere dall’uomo.
Il ricercatore di siffatte verità in fondo cerca solo la metamorfosi del mondo nell’uomo. Egli lotta affannosamente per una comprensione del mondo come una cosa di specie umana e combattendo si conquista nel caso migliore il sentimento d’una assimilazione. Similmente a come l’astrologo considera le stelle al servizio dell’uomo e in connessione con la sua felicità o dolore, così un tal ricercatore considera il mondo intero come collegato all’uomo, come il risuonare infinitamente rifratto d’un suono originario, dell’uomo, come la raffigurazione moltiplicata dell’unica immagine originaria, dell’uomo.
Il suo procedimento è: attenersi all’uomo come misura di tutte le cose, laddove, però, parte dall’errore di credere che egli abbia immediatamente queste cose come oggetti puri di fronte a sé. Egli dimentica dunque le originali metafore intuitive in quanto metafore e le prende come le cose stesse. >>
Un “ricercatore di verità”, probabilmente Nietzsche ha in mente la filosofia e i filosofi, opera un errore: pensare che il Mondo-Natura è connesso gnoseologicamente all’uomo. È un errore pensare che il Mondo-Natura possa essere conosciuto dall’uomo.
Il “motto” di questo ricercatore è: << L’uomo è misura di tutte le cose che sono e di tutte le cose che non sono >>. Questa è la ripresa del famoso “relativismo gnoseologico”, sostenuta da Protagora, in quanto “redditivo” nella sua testimonianza contenuta nel Teeteto di Platone (152 a): << l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono >>.
L’errore è di pensare ai concetti come oggetti linguistici o a qualcosa che si riferiscono intrinsecamente alla “cosa in sé”. Mentre i concetti sono solo dei “residui di metafore” e l’uomo dimentica o oblia l’origine creativa, individualizzante e individuale delle metafore stesse.
La dimenticanza, l’oblio sono passaggi evidenti e nascosti per dare alla “conoscenza umana”, che rimane sempre un non-sapere obliato, una certa forma di “stabilità”. Il motto di questa dimenticanza sarebbe: “bisogna trasporre le cose in oggetti”. O meglio ancor questo motto potrebbe essere detto: “bisogna trasporre le cose in sé in concetti linguistici”.
L’oggetto, che diviene per la mia conoscenza, ovvero i concetti linguistici, sono il frutto di un procedimento di “fantasmatizzazione” di ciò che c’è e ciò che è. Questo processo passa da un’iniziale creativa metaforizzatrice dell’uomo (espressa in suoni, immagini, parole totalmente creative, individuali e individualizzabili) a spettrali o irrigiditi concetti “scheletrici” (espressa dal colombarium dei concetti o dalla “volta” astronomica-concettuale).
La carica “fantastica”, prodotta proprio dalla “Fantasia” umana, determina tutto ciò che incontra. Da un piano metaforico e “fantastico” l’uomo spinto dal “sentimento della verità”, come moto morale per la “Risoluzione di Pace” (der Friendesschluss) di un possibile bellum omnium contra omnes causato dalla presenza di un mentitore in società, passa ad una intenzione propria di concettualizzazione, sentita come perdita dell’iniziale fantasia umana e della metafora intuitiva. Tutto questo procedimento di “concettualizzazione” comporta una genesi costruttiva di schemi, che avrebbero la pretesa di cogliere il “Noumeno” delle cose. Ma sappiamo che non è così.
Pertanto possiamo asserire che il linguaggio è un rivestimento “fantasmagorico”, spettrale oserei dire. Il linguaggio da un’inziale dimensione “fantastica” (prodotta dalla fantasia che “crea” le metafore intuitive) passa ad una dimensione “concettuale o nominale” (dato dall’oblio della fase iniziale della fantasia, e soprattutto volatilizzando le metafore intuitive in concetti, che sono residui di metafore, “spettri” o “scheletri” delle metafore intuitive).
L’uomo dimentica l’origine obliosa, artificiosa, antropomorfica della Verità, che pretende di conoscere il mondo, ma che in realtà continua a rimanerne fuori da una possibile conoscenza. Il Mondo, al di là della Verità, è un mondo completamente in divenire. La de-metaforizzazione linguistica, ossia la “costruzione” della volta concettuale”, ha la funzione di dare una forma stabilizzante al Mondo, che non sarà mai stabile. Questa de-metaforizzazione linguistica cerca di ridurre il campo conoscitivo di una cosa ad una definizione, ma questa definizione risulta comunque vuota nel suo conoscere il mondo.
Questo procedimento significa adeguare l’oggetto al soggetto, adeguare il concetto oggettivo alla conoscenza soggettiva, adeguare ciò che è ritenuto verità per la società a ciò che è ritenuto verità per il singolo. Questa è “giusta percezione” che abbiamo o che ci è stata trasmessa, secondo Nietzsche. Secondo Nietzsche, qui, si presenta una duplicazione dell’inganno. Secondo Nietzsche ci sarebbe un cortocircuito ingannevole. Innanzitutto l’uomo non è il centro o il baricentro conoscitivo dell’universo: ricordiamoci il passo sulla zanzara. Inoltre il problema dell’uomo è che si debba dara o che ci debba essere “ortodossia” nel paragonare le diverse percezioni, che rimano sempre “eterodosse”.
Riprendiamo con la lettura:
<< Solo attraverso l’oblio di quel primitivo mondo metaforico, solo attraverso l’indurirsi irrigidirsi di un’originaria massa d’immagini sgorgante fuori con impetuoso flusso dalla facoltà originaria dell’umana fantasia, solo attraverso la fede invincibile che questo sole, questa finestra, questo tavolo sia una verità in sp, in breve solo attraverso il fatto che l’uomo oblia sé come soggetto e precisamente come soggetto “artisticamente creatore”, egli vive in concorde tranquillità, sicurezza e coerenza. Se egli potesse uscir solo un istante dalle imprigionanti pareti di questa fede, la sua “autocoscienza” sarebbe allora subito dissolta.
Gli costa già molta fatica ammettere quanto l’insetto o l’uccello percepiscano un tutt’altro mondo che l’uomo, e che la questione su quale delle due percezioni del mondo sia più giusta sia del tutto priva di senso, poiché già per questo dovrebbe necessariamente venir misurata con il metro della “giusta percezione” cioè con un metro “non disponibile”.
Ma in generale la “giusta percezione” – questo verrebbe chiamata l’espressione adeguata di un oggetto nel soggetto – mi sembra una non-cosa piena di contraddizioni: perché fra due sfere assolutamente diverse come fra soggetto e oggetto non vi è nessuna causalità, nessuna giustezza, nessuna espressione, bensì tutt’al più un comportamento “estetico”, intendo una trasposizione allusiva, una traduzione post-balbettante in una lingua del tutto straniera.
Ma per questo vi è in ogni caso bisogno d’una sfera di mezzo e forza intermedia liberamente poetante e inventiva. La parola apparenza contiene molte seduzioni, pertanto io la evito il più possibile: infatti non è vero che l’essenza delle cose appaia nel mondo empirico. Un pittore a cui mancassero le mani e che volesse esprimere attraverso il canto l’immagine aleggiante innanzi a lui, sverlerà con questo scambio delle sfere ancora sempre più di quanto il mondo empirico non sveli sull’essenza delle cose.
Persino la relazione di uno stimolo nervoso con l’immagine prodotta non è in sé nulla di necessario. Se tuttavia proprio la stessa immagine è prodotta milioni di volte e trasmessa in eredità attraverso molte generazioni di uomini, invero alla fine appare all’intera umanità ogni volta in conseguenza dello stesso punto, tanto che acquisisce infine lo stesso significato per gli uomini, come se fosse l’unica immagine necessaria e come se quella relazione dell’originario stimolo nervoso con l’immagine prodotta fosse una stretta relazione di causalità. Come un sogno, eternamente ripetuto, verrebbe sentito e giudicato proprio come realtà.
Ma l’indurirsi e irrigidirsi di una metafora non garantisce proprio per niente la necessità ed esclusiva autorizzazione di questa metafora.
Per oblio noi indichiamo l’irrigidirsi metaforico linguistico quando l’uomo dimentica il suo “passato” di soggetto “artisticamente creatore” di metafore intuitive per poi determinare, a causa del “sentimento della verità” come moto morale, irrigiditi e illanguiditi concetti, volatilizzazioni o scheletri delle metafore intuitive.
Per fede (das Glauben) intendiamo il credere dell’uomo che fra Metafore volatilizzate-Concetti scheletrici-Linguaggio e la “cosa in sé” (das Ding o “Noumeno” o X delle cose) vi sia una causalità necessaria. Ma non è così secondo Nietzsche. Tutto si poggia, secondo Nietzsche, sull’illusoria autocoscienza dell’uomo di essere il centro della realtà, ma che è alla base di tutto vi è Oblio dell’iniziale designazione linguistica metaforica, che copre l’errore che l’ha originata.
Secondo Nietzsche la percezione in sé e per sé non è fonte di conoscenza certa. Questo tipo di conoscenza è irto di contraddizioni per Nietzsche. Quando c’è “giusta percezione” ci sarebbe anche un’espressione adeguata fra oggetto e soggetto. Ma questa “giusta percezione”, secondo Nietzsche, non è disponibile. Una “giusta percezione” è irta di contraddizioni. Ma per Nietzsche fra soggetto e oggetto non vi è causalità o “giusta percezione”.
Inoltre per Nietzsche fra soggetto e oggetto c’è una relazione di tipo “estetico”, ossia, la produzione di metafore linguistiche che è di tipo poetante e inventiva. La cosa in sé non può essere compresa partendo dalla relazione fra Stimolo Nervoso e l’immagine prodotta. L’essenza delle cose non è data dal mondo empirico.
Per Stimolo nervoso [der Nervenreiz, der Reiz] indichiamo l’elemento occasionante la metaforizzazione propria alla sua trasposizione arbitraria, benché costantemente svolta, in immagine, suono, parola, concetto senza che necessariamente una determinata causa esterna lo determini né abbia rapporti intrinseci con la cosa designata da tali umane metafore.
Insomma un concetto o uno schema, in quanto metafora volatilizzata, non sono frutto di una relazione di causalità fra soggetto e oggetto (quindi una “giusta percezione”), ma sono risultato di una scelta per abitudine, convenzione, consuetudine che non ha alcuna relazione necessitante o realmente conoscitiva fra mondo e linguaggio.
Quindi non sussiste una necessità nemmeno del rapporto fra stimolo nervoso e immagine. Nietzsche chiarirà in seguito come lo stesso istinto, umano (stimolo nervoso) o animale (solo sentire), sia frutto di abitudine. Il frammento postumo del 1884 asserisce: <<Gli istinti (stimoli nervosi) sono gli “effetti postumi di valutazioni da lungo tempo coltivate, che ora operano istintivamente, come un “sistema” di giudizi di piacere e dolore >>.
Quindi noi utilizziamo un “metro” singolare, unico e uniforme, quello della “giusta percezione”, che vuol dire individuare una “causalità” nel mondo e soprattutto indentificare una percezione che si basi sull’adeguazione dell’oggetto per un soggetto. Questa “giusta percezione”, come detto, è il risultato dell’oblio del soggetto linguistico in merito al suo passato di essere un “soggetto artisticamente creatore”.
Il linguaggio è il modo di “avvertire” o conoscere il mondo e la sensibilità implicando un adeguarsi dell’oggetto al soggetto. L’ “affezione conoscitiva” (e in questo caso individuata come “giusta percezione”), determinandosi dal punto di vista del soggetto, giunge a determinare o a “trascendere” costantemente anche la sensibilità.
Il linguaggio per Nietzsche è quasi come “un organo d’ostacolo” alla comprensione del mondo, che non si realizzerai mai in base a questi antropomorfismi. La radice organica e biologica è parte integrante della costruzione linguistica, quella che abbiamo denominato come “costruzione dei concetti” (colombarium “romano” dei concetti). Per Nietzsche la costruzione linguistica è un ostacolo, un muro sul piano del percepimento della sensazione.
Qui è doveroso un richiamo ad Hegel[18]. Hegel in merito al linguaggio individua la modalità organica e l’importanza dell’apparato fonico. Il linguaggio prevede un passaggio dalla “vocalizzazione” (uso delle vocali) all’articolazioni delle consonanti e vocali. Il reticolo linguistico, da un’iniziale “struttura vocalica” o “vocalizzazione”, si articola e soprattutto viene interrotta dalle consonanti. La consonante produce un’interruzione nella “vocalizzazione”. Perché è così importante la consonante? La consonante specifica i suoni in una certa direzione, ponendosi accanto a un suono puro, molto più vicino alla metafora intuitiva. Insomma la consonante determina, distingue e specifica.
Ribadiamo la “giusta percezione”, ovvero l’espressione adeguata di un oggetto nel soggetto, o per meglio dire la concordanza cosa-oggetto-linguaggio-soggetto, secondo Nietzsche è un’illusione, non è disponibile, non è “ortodossa”.
La verità allora è l’adeguazione dell’oggetto nel soggetto, o meglio tramite il linguaggio possiamo conoscere il mondo? Il soggetto può conoscere la realtà, il mondo e l’oggetto tramite il linguaggio? Per Nietzsche questa è un’illusione. Ma quando vi è la trasmutazione dell’oggetto da parte del soggetto? È proprio tramite al linguaggio o meglio ancora al suono. Il suono è costitutivamente diretto verso altre singolarità o verso gli altri. Pertanto il suono prevede almeno due singolarità in modo che si possa dare comunicazione.
La verità non può darsi nella sola dimensione della minima singolarità. Non c’è verità, in base alla visione antropomorfica e obliosa che ne dà Nietzsche, quando la verità è “come sento solo Io e come percepisco solo Io”.
Quindi il rapporto fra soggetto e oggetto è un oblio del passato del soggetto creativo, ma soprattutto dei passaggi autoconservativi attuati dall’Intelletto. Però rimane in Nietzsche la visione che il linguaggio è un organo di ostacolo al “Noumeno” delle cose. Da un altro lato Nietzsche riscontra la natura sociale messa in pratica dal linguaggio (che richiede comunicazione fra più soggettività) e l’Intelletto (che tramite la propria capacità prestigiatrice tende a salvaguardare o auto-preservare la stessa Vita).
Quindi il linguaggio, che richiedere un’adeguazione dell’oggetto nel soggetto, non riesce a cogliere la sensibilità, il mondo, la realtà, l’oggetto, che è una cosa fuori dal soggetto. La società, la capacità prestigiatrice dell’Intelletto, il linguaggio rendono la verità simile ad un’ “adeguazione fra oggetto e soggetto”, una “giusta percezione”, un’espressione. Questa espressione ci rende qualcosa per noi e tutto proviene, secondo Nietzsche, dall’esercizio metaforico in cui ‘ radicato l’Intelletto come “Arte Finzionale”. Perciò Nietzsche pensa alla relazione fra soggetto e oggetto in quanto “comportamento estetico” con il passaggio da un’iniziale dimensione metaforica a una successiva “scheletrizzazione” dei concetti.
Kant avrebbe risolto la questione della conoscibilità del mondo in base alle sue famose “idee a priori”: Spazio e Tempo”[19]. Per inferire o dire qualcosa, che assuma i tratti della legge o di universalità linguistica, bisogna tenere conto della “Rivoluzione Copernicana”[20] del soggetto per Kant. C’è possibilità di cognizione quando si delinea nell’ambito della spazialità e temporalità in base al soggetto. Insomma per Kant “quello che cerchiamo” sono sempre delle produzioni soggettivi. Il fenomeno è la cosa per noi, individuando una necessità organica del soggetto vivente. La legge corrisponderebbe ad una regolarità, inserita nell’occidentalità (Orientarsi nel pensiero secondo Kant) di ciò che è. Ossia noi conosciamo gli oggetti in base alle nostre “reti preformate” (Spazio e Tempo) che sia adeguano proprio al nostro modo preformato e al nostro proprio modo d’essere. La sensazione per Kant è possibile averla solo se la spazializziamo e temporalizziamo una data esperienza. Da dove ricaviamo le forme a priori? Sono parte integrante dell’esperienza sensibile. Sono la nostra tramatura della nostra esperienza sensibile. È “dentro” o in condizione di esperienza sensibile che noi troviamo sempre la “rete” dello spazio e del tempo. Potendole isolare sono le “forme trascendentali”, dal lato del soggetto conoscente ma anche dal lato dell’esperienza sensibile. La dimensione “trascendentale” o criticistica di Kant è una filosofia del “limite” che indica i limiti e le possibilità conoscitive del soggetto immerso nell’esperienza.
Invece l’approccio di Nietzsche è di natura “genealogica”. Nietzsche riscontra una “radice metaforica” del soggetto, in quanto artisticamente creativa (e perciò artistica), in relazione alla realtà. Quando questa prima fase conoscitiva o questa prima presa di contatto con il mondo viene dimenticata, allora subentra la regolarità o meglio la “costruzione dei concetti”, ovvero il colombarium romano o la “volta astronomica” degli schemi o dei concetti. Il movimento metaforico di trasmutazione della realtà passa ad una successiva volatilizzazione della stessa metafora in favore dei concetti o degli schemi.
La metafora deve irrigidirsi e solidificarsi per divenire una “conoscenza”, anche se per Nietzsche non sarà mai una conoscenza. Quindi l’uomo è come un’ape che costruisce le sue “celle”. Pertanto possiamo tracciare questa proporzione:
Il linguaggio ha il fine di essere una prima “stabilizzazione del divenire”. Questo per Nietzsche rimane sempre impossibile. Il linguaggio risulta simile alla scienza. La costruzione scientifica è un “operazione di pulizia e di arricchimento”. È una costruzione di delimitazione dell’intuizione del concetto ridotto alla cenere. La “rete concettuale” o la “rete scientifica” significa incasellare qualsiasi tratto peculiare per restituirlo alla generalità delle cose, ma cosi facendo lo riduciamo ormai in cenere. Il concetto è la volatilizzazione metaforica e rimane il nostro modo di stabilizzare il divenire, anche se per Nietzsche è fallimentare. Questa organizzazione concettuale incasella, definisce il mondo come un mondo “antropomorfizzato”. Il mondo stesso viene reso in base all’antropomorfizzazione dell’uomo come “uomo misura di tutte le cose”.
Il linguaggio, ma soprattutto la “costruzione dei concetti” mira a far passare dal mondo della doxa (che muta, cambia, è instabile, dove l’essere umano non riesce a viverci, soprattutto per la pericolosità degli altri, e che risulta continuamente apparente) al mondo dell’episteme (che è certo, è stabile, è vero, e che protegge dalla pericolosità degli altri). È un richiamo nuovamente a Parmenide! Quindi Nietzsche individua che l’uomo ha la necessità di “testare” il mondo apparente con le nostre capacità cognitive, proprio tramite il linguaggio. Tutto ciò implica che il linguaggio, studiato geneaologicamente da parte di Nietzsche, permette la distinzione di tutte le cose del mondo, ovverossia abbatte la costitutiva “turbolenza” del caos e del caso insiti proprio alla nostra realtà, al nostro mondo.
Il mio corpo in che misura coincide con me? Oppure l’Io come coincide con il corpo? Perché il “mondo onirico” dovrebbe turbarci? Insomma a tutte queste domande che l’Ego è lo specchio o immagine del mondo: la possibilità dell’errore dell’Io è radicata nella stessa natura dell’uomo. La nostra rottura razionale, tramite il linguaggio, deve sempre fare i conti, nel processo di stabilizzazione tentato dal nostro intelletto, con gli aspetti “onirici” della realtà, del mondo. Il linguaggio è la nostra modalità sistemica di stabilizzare il caos insito nello stesso mondo. Lo stesso Intelletto è uno strumento o protesi di una struttura altamente fragile: l’uomo. Lo stesso Discorso sul Metodo di Cartesio è una ricerca o una necessità di stabilizzazione del Mondo e dell’Io.
La ricerca della causalità in base al moto morale in relazione alla verità, il caos del mondo, il divenire, il tramutare, il mutamento, l’essere mortale “spingono” l’uomo a tentativi o processi di stabilizzazione cognitiva del reale.
Due tentativi di conoscenza sono:
- Il trascendentale cerca di individuare i “limiti” cognitivi
- Il trascendente fissa la conoscenza ultima in una realtà ultra-mondana
Il Trascendentale è elaborato ovviamente da Kant. La realtà, il mondo, la materia vengono “compresi” con un’identità modalità dalle forme a priori di Spazio e Tempo. Questa è la possibilità di astrazione cognitiva offerta all’attività del soggetto, come un “cogliere” mente della realtà fenomenica.
Nietzsche vorrebbe individuare altre forme di comprensione dell’esperienza e della realtà. Nietzsche vorrebbe procedere al di là delle questioni dello schematismo e al di là della cornice “trascendentale-criticistica”. Nietzsche individua che le forme a priori della conoscenza umana non sono le sue idee a priori. Piuttosto i nomi, i concetti e le parole sono come un “rivestimento” delle cose o meglio è una volatilizzazione di una prima fase di metaforizzazione. Questo processo per Nietzsche è “estetico”, poiché pone in gioco l’eccesso fantastico dell’Intelletto che opera per “Finzione”. Nietzsche ci propone di sondare o meglio giudicare tutte le stratificazioni culturali e concettuali, in modo da trarne una “critica dei valori” o una “trasvalutazione di tutti i valori”. Il Vero è un altro modo di farsi piacere l’illusione. Questo è l’enigma a cui ci sottopone Nietzsche, ma soprattutto il Mondo caotico.
11° Lezione: L’Uomo Intuitivo e l’Uomo Razionale
Cerchiamo di comprendere il 10° paragrafo di [Illusione e convenzione, consuetudine e oblio nella forma umana del linguaggio e della verità].
Il 10° paragrafo è intitolato [Creazione soggettiva della regolarità delle leggi di natura attraverso le forme numeriche di spazio e di tempo].
Ogni uomo pensa che ci sia un’infallibilità nelle “leggi di natura”. Ogni uomo crede che, dalla astronomia fino alla chimica (metafore del macroscopico e del microscopico), grazie a una lunga serie di “leggi natura”, riesca a comprendere la realtà in modo “sicuro, costruito, infinito, regolare e senza lacune”.
Ma secondo Nietzsche questa “costruzione di leggi di natura” è frutto soltanto di “fantasticherie”, o meglio è “un prodotto della fantasia”. Quindi Nietzsche rifiuta “una siffatta regolarità della natura”, poiché questa “costruzioni di leggi di natura”, basata su designazioni di suoni, di parole e in seguito da concetti o schemi, è soltanto “una creazione altamente soggettiva”. Nietzsche quando parla di “creazione” utilizza la parola das Gebilde, ovvero, una conformazione o un prodotto.
Le “leggi di natura” sono antropomorfismi. Per Nietzsche, facendo riferimento alla zanzara, all’uccello, alla pianta, al verme, noi non possiamo ritenerci il centro conoscitivo del mondo. Quindi l’essenza delle cose non è comprensibile per l’uomo. Le “leggi di natura” sarebbero conoscibili solo per gli effetti o per le relazioni con altre leggi di natura, che a loro volta sono solo delle relazioni.
I numeri e i rapporti di successione, ovvero lo spazio e il tempo, ci danno l’impressione illusoria di riscontrare una regolarità nel mondo. Nietzsche afferma: << Ma tutto ciò lo produciamo in noi e da noi con quella necessità con cui il regno tesse la tela >>. Secondo Nietzsche siamo noi che produciamo, creiamo, conformiamo, introduciamo lo spazio e il tempo nelle nostre rappresentazioni. Nietzsche afferma: <<concepiamo in tutte le cose propriamente soltanto proprio queste forme >>. Quindi lo Spazio e il Tempo sono alla base della nostra attività creatrice artisticamente, ovvero, quella della metaforizzazione, quella di produrre delle “Metafore” intuitive. Il permanere di spazio e tempo è la base del processo di “costruzione delle metafore”. Difatti le “leggi di natura”: << devon necessariamente portare tutte in sé le leggi del numero, e il numero è proprio ciò che vi è di più stupefancente nelle cose. Tutta la regolarità, che tanto c’impressiona nel corso degli astri e nel processo chimico, coincide in fondo con quelle proprietà che noi stessi introduciamo nelle cose, cosicché siamo noi stessi che impressioniamo noi stessi. Con ciò però emerge che quell’artistica formazione di metafore, con cui comincia in noi ogni sensazione, presuppone già quelle forme, dunque è in esse che viene adempiuta. >>
L’imitazione (die Nachahmung) è la “costruzione dei concetti”, che imita i rapporti spazio-temporali. Però l’imitazione li traduce sul piano concettuale. L’attività metaforizzatrice poi tradotte in “costruzione di concetti”, predilige più l’uso di metafore consolidate.
Passiamo al 2° Capitolo: [Scienza, arte, filosofia]. Nietzsche mette in evidenza l’antropomorfismo su cui poggia la verità. Nietzsche sonda le difficoltà intime della Scienza, dell’Arte e del Linguaggio. Il nostro modo di intellegire, parlare, comprendere, discutere passa dalla dimensione linguistica a quella scientifica. Questo passaggio o meglio questa dimensione è una produzione illusoria, antropomorfica, dovuta all’attività prestigiatrice dell’intelletto. Nietzsche afferma:
<< Alla costruzione dei concetti lavora originariamente come vedemmo, il linguaggio, in tempi più tardi la scienza. Come l’ape a un tempo costruisce le celle e riempie le celle di miele, così la scienza lavora incessantemente a quel grande columbarium dei concetti, il cimitero dell’intuizione, costruisce piani sempre nuovi e più alti, puntella, ripulisce, rinnova le vecchie celle, e anzitutto si sforza di riempire quel traliccio eretto nell’immensità e di collocarvici ordinatamente l’intero mondo empirico cioè quello antropomorifico. >>.
Innanzitutto definiamo Linguaggio e Scienza per Nietzsche in questo caso.
Il linguaggio, per Nietzsche, nasce per necessità grazie alla nostra capacità di “Finzione” dell’Intelletto, che è teso nel conservare l’individuo. Il linguaggio è arbitrario in modo da avere una legiferazione linguistica uniformante, che si “costruisce” per convenzione, consuetudine e abitudine. Quindi la corrispondenza fra “cosa” (Noumeno e cosa in sé) e parole è una corrispondenza arbitraria e antropomorfistica.
La scienza, per Nietzsche, è quando lo scienziato con il materiale linguistico delle astrazioni concettuali costruisce un’enorme ragnatela o un enorme nido di api o meglio ancora un columbarium dei concetti in cui ogni metafora si è volatilizzata. La scienza cerca di far esigere e vigere delle “leggi di natura”. Le leggi di natura non colgono l’essenza delle cose ma tentano di dare un ordine e una regolarità di relazioni. La scienza è il passaggio successivo al linguaggio come suo ordinatore cimiteriale di tutta la realtà empirica ovvero è un’antropomorfica costruzione babelica e al tempo stesso fragile e scheletrica.
<< Se già l’uomo d’azione lega la sua vita alla ragione e ai suoi concetti, per non venir trascinato via e non perdere se stesso, altrettanto il ricercatore costruisce il suo rifugio attaccato alla costruzione a torre della scienza, per poter contribuire ad essa e trovar egli stesso riparo sotto il bastione disponibile. Ed egli ha bisogno di riparo: giacché ci son potenze spaventose che premono continuamente su di lui, e che contrappongono alla verità scientifica “verità di tutt’altra specie con le più disparate insegne. >>
La verità è “attraversata” dalla natura razionale dell’essere umano poiché la verità è legata inscindibilmente al potere metaforizzante del linguaggio. L’uomo è un essere metaforizzante, difatti Nietzsche afferma:
<< Quell’impulso alla formazione di metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo, di cui non si può tenere conto nemmeno un istante, perché con ciò non si terrebbe conto dell’uomo stesso, è perciò, poiché con i suoi prodotti volatilizzati, i concetti viene costruito un nuovo mondo regolare e rigido come roccaforte per lui, in verità non domato e a malapena ammansito. >>
L’impulso alla metaforizzazione è un impulso fondamentale dell’uomo, che non può essere ammansito. Anzi con la volatilizzazione delle metafore si compone una “costruzione di concetti”. Questo astratto ordinamento concettuale si attiva dalla dimenticanza e dall’oblio, ma soprattutto si consolida per abitudine, per convenzione, per consuetudine. La Metafora è la radice dell’astrazione concettuale. L’uomo necessità, anche per propria autoconservazione, di avere un “punto” su cui innestare il proprio impianto conoscitivo o esperienziale rispetto al caos e alla molteplicità del mondo. Questo stesso mondo lo contenta in questo suo modo di essere, ovvero, costruire “volte concettuali” che non coglieranno mai la “cosa in sé”. L’Intelletto umano si “contrappone” alla Natura, poiché c’è possibilità di vita umana o conservazione della vita, grazie a processi di stabilizzazione (1] stabilizzazione conoscitiva: fissazione linguistica dei concetti, 2] stabilizzazione morale: “sentimento della verità come moto morale” per la “Risoluzione di Pace” linguistica altrimenti ci sarebbe la pericolosità del Mentitore e il bellum omnium contra omnes) proprio perché si è continuamente esposti alla molteplicità e al caos del mondo. La natura umana, quindi, è dotata dell’impulso di metaforizzare. Questo impulso viene implementato grazie alla traduzione e “trasduzione”. In Hegel il punto su cui ruota l’autocoscienza è già in sé. Qui infatti il movimento guarda a qualcos’altro nella dialettica Servo-Padrone e assume la soggettività assume la possibilità di guardarsi, di riflettere. Quindi la possibilità di una vita, che si riflette, non è qualcosa (sia in Hegel che in Nietzsche) che può essere sistematizzata uniformemente. Difatti l’Intelletto umano ricerca un “punto” con cui poter “ammansire” il caos del reale. Il colombarium dei concetti continua a insistere in una posizione regolarizzate la realtà in modi che << vien costruito un nuovo mondo regolare e rigido come roccaforte per lui, in verità non domato e a malapena ammansito >>. Questo impulso alla metaforizzazione, però, cerca anche un altro ambito, come nel Mito e nell’Arte.
Il Mito succede alla Scienza per la sua intuitività ed illusorietà artistica posta al servizio della vita dell’uomo di cui favorisce l’istintuale metaforizzazione.
Mito e Arte scompigliano il “mondo dei concetti” inserendo nuove metafore e desiderando di formare il mondo in modo “colorato, irregolare, stimolante”.
L’Arte è una forma di conoscenza che non ha la pretesa di attingere le “cose in sé”, fini ultimi, cause, verità, fosse anche quella dell’annientamento di sé nella verità o della verità della non-verità, poiché è autocosciente della propria illusorietà. Assieme al mito riattinge all’impulso metaforico contrapponendosi alla scienza che ha cercato di annullare le metafore. Invece l’arte cerca di riformulare in modo intuitivo la fredda concettualità astratta riportandola in un sogno creativo. Mito e Arte per Nietzsche:
<< Continuamente scompiglia le rubriche e celle dei concetti immettendo nuove traduzioni, metafore, metonimie, continuamente mostra il desiderio di foggiare il mondo presente dell’uomo desto in modo così colorato, irregolare, privo di conseguenze, sconnesso, stimolante ed eternamente nuove, com’è il mondo del sogno.
Di per sé, l’uomo desto, certo solo attraverso la rigida e regolare ragnatela del concetto vede chiaramente ciò, che sia desto, e proprio perciò giunge talvolta a credere che sogni, una volta che quella ragnatela del concetto venga strappata dall’arte. >>
L’Arte e il Mito vivono nel sogno, mentre, la Scienza vive in un giorno “disincantato”. Nietzsche afferma: << è grazie al miracolo continuamente operante, come accolto dal mito, di fatto più simile al sogno che al giorno del pensatore scientificamente disincantato. >>
Quindi la metaforizzazione può assumere un distacco dal razionale e soprattutto immettersi nei canali dell’onirico. L’intelletto, in questa ottica, può assumere una doppia funzione:
- L’Intelletto può essere uno strumento che cerca di divertirsi in quanto soggetto produttore di finzioni;
- L’Intelletto può essere uno strumento a disposizione dell’uomo per auto-conservare la propria vita e per poi sviluppare il “sentimento della Verità” come moto morale;
Il primo approccio con il Mondo, da parte dell’Intelletto, avviene per “metaforizzazione”. Questo è il primo modus intelligere dell’uomo.
Il secondo approccio con il Mondo, e soprattutto la prima forma di stabilizzazione, è il linguaggio. L’esperimento del mondo inaudito ora viene a regolamentarsi in base al linguaggio. Il mondo onirico e il mondo razionale procedono in due direzioni diversi. Il mondo onirico si rivolge alla metaforizzazione intuitiva e al puro stato di fatto, mentre, il mondo razionale procedere verso la destabilizzazione del mondo onirico per poi stabilizzare la realtà adoperando una “costruzione di concetti”.
Quindi la Natura Umana dimostra anche di voler ritornare al mondo gnoseologico delle metafore intuitive, difatti, è: << il desiderio di foggiare il mondo presente dell’uomo desto in modo così colorato, irregolare, privo di conseguenze, sconnesso, stimolante ed eternamente nuovo, com’è il mondo del sogno >>.
L’uomo desto o uomo razionale ragiona per concetti cercando di elaborare una rigida e regolare “ragnatela”. L’arte offre la possibilità di scardinare la “ragnatela” dei concetti.
Il soggetto linguistico, elaborante la regolare “ragnatela” dei concetti, e il soggetto onirico, scardinante la “ragnatela” dei concetti, sono due diversi modi di affrontare la Vita. Il soggetto onirico è una frattura enorme rispetto al soggetto linguistico. Ad esempio il caso di Cartesio degli automi e dei manichini può renderci l’idea.
L’inganno e l’illusione fanno parte del Mondo onirico, quindi la regolare “ragnatela” dei concetti è scardinata dall’arte proprio perché vengono immessi inganno e illusione nel normale ordine del linguaggio, dell’Intelletto e del Mondo scientifico.
Qui Nietzsche riprende un passo di Pascal: << Pascal ha ragione quando afferma che noi, se ogni notte ci giungesse lo stesso sogno, ne saremmo così occupati proprio come delle cose che vediamo ogni giorno >>.
Il mondo onirico apre squarci di confusione in cui l’essere che non è ancora. Il mondo razionale ha bisogno di ricerca una sua stabilità rispetto alla discontinuità del mondo reale. Difatti il pensiero del mondo razionale è un separarsi dalla vita reale, poiché tende ad auto-conservarsi. Invece nel Mondo onirico pensiero ed essere sono la stessa cosa: sono intuizione, sono caos.
Pertanto queste sono le caratteristiche del Mondo Razionale e del Mondo Onirico:
Mondo Razionale | Mondo Onirico |
Ricerca della continuità e deve essere sempre “desto” | Accettazione della discontinuità e ricerca di essere “sognante” |
Impulso metaforico è irrigidito. È il caso della Scienza | Impulso metaforico è fluente. È il caso dell’Arte |
Riprendiamo il passo di Nietzsche:
<< L’uomo stesso però ha un’invincibile inclinazione a lasciarsi ingannare ed è come incantato di fronte alla felicità quando il rapsode gli narra come vere favole epiche oppure nel dramma l’attore interpreta ancora più regalmente il re di quanto gli mostri la realtà.
L’intelletto, quel maestro di finzione, è libero, e sollevato dal suo solito servizio come schiavo, finché può ingannare senza nuocere e celebrando allora i suoi saturnali. Mai esso è più esuberante, più ricco, più orgoglioso, più abile e più audace. Con gusto creativo mette sottosopra le metafore e sposta le pietre di confine dell’astrazione, cosicché per esempio designa il fiume come quel camminante cammino che porta l’uomo colà ove altrimenti andrebbe a piedi. >>
L’uomo, quando agisce creativamente o artisticamente, solleva l’Intelletto dal suo solito compito e si prende gioco di sé stesso. insomma l’Intelletto è libero. L’Intelletto quando opera artisticamente opera per artifici, ovvero, l’Intelletto umano è libero dalla costrizione scientifica. Insomma ricrea artisticamente con giocosa Ironia e con costruzioni metaforiche atte ad eternizzare la Vita.
L’arte vuole essere Signore, sentendosi libero dall’Intelletto, in modo da destabilizzare il mondo dell’al di qua. La Felicità artistica è di vivere nell’illusione e nella metaforizzazione intuitiva senza interagire con il piano dell’astrazione concettuale.
Come si confrontano la creazione artistica e l’astrazione scientifica:
Creazione artistica | Astrazione scientifica |
Gioco creativo con le metafore e “le pietre di confine dell’astrazione” in modo da essere più vicini all’essenza delle cose (che comunque non si dà mai).
Esempio: II fiume “come quel camminante cammino che porta l’uomo colà ove altrimenti andrebbe a piedi”. |
Trascende il dato intuitivo delle cose e delle metafore. Poi designa un’espressione linguistica, di tutt’altro genere rispetto al Mondo caotico. Infine le Metafore si volatilizzando formando i “concetti”, che vengono ricompresi in una pseudo-solida “costruzione di concetti”: il colombarium romano e la volta concettuale
Esempio: definizione di fiume. |
Riprendiamo il passo di Nietzsche riguardo l’Arte:
<< Adesso ha esso gettato via da sé il segno della servitù: altrimenti premurato, con melancolica operosità, d’indicare il cammino e l’attrezzatura a un pover individuo desideroso d’esistere e partendo in cerca di preda e di rapina come un servo per il suo signore, adesso è divenuto signore e può levar via dal suo volto l’espressione della miseria.
Qualunque cosa ora faccia, tutto a confronto col suo precedente fare porta in sé la finzione come il precedente la distorsione. Esso copia la vita umana, ma la prende per cosa buona e sembra nel comportarsi molto soddisfatto d’essa. Quell’immensa impalcatura e travatura di concetti, aggrappandosi alla quale lungo la vita si salva il misero uomo, è per l’intelletto divenuto libero un’armatura e un giocattolo per i suoi audaci artifici: e quando esso la manda in frantumi e mette sottosopra, ricomponendola ironicamente di nuovo, accoppiando le cose più estranee e separando le più vicine, allora palesa che non ha bisogno di quegl’ espedienti della miseria (i concetti), e che adesso non viene guidato da concetti bensì da intuizioni.
Da queste intuizioni non c’è alcun cammino regolare che conduca nella terra degli schemi spettrale, delle astrazioni: la parola non è fatta per esse, l’uomo quando la vede ammutolisce, oppure parla con metafore solamente proibite e inauditi costrutti concettuali, per corrispondere creativamente, all’impressione della potenza intuizione presente, almeno attraverso la frantumazione e derisione delle vecchie barriere concettuali. >>
L’Intelletto indica “un’ attrezzatura”, ovvero una “costruzione concettuale”. Ma l’uomo, creando artisticamente, può giocare con la realtà metaforica, difatti, “l’immensa impalcatura di concetti” diviene, per l’Intelletto creatore artisticamente, “un’armatura e un giocattolo per i suoi audaci artifici”. La condizione libera dell’Intelletto è molto più vicina al divenire, allo scorrere del tempo. La dimensione temporale dell’arte, rivolta al divenire, è diversa dalla fissità voluta dall’astrazione. L’Intelletto, libero e sconnesso, impiegato metaforicamente, non ha la capacità di nominare le cose, ma di “andare” verso le cose stesse. La dimensione libera dell’Intelletto è quella artistica.
L’Intelletto artistico “porta in sé la finzione come il precedente la distorsione”. Questa frase significa che il procedere artistico recupera la dimensione dell’illusione, significa fare il proprio ingresso nel mondo dell’apparenza, assumendo una “mobilità delle appariscenze”. Assumere una visione artistica, intuitiva significa prendere il mondo in quanto apparire, per ciò che è nella sua molteplicità, nella sua multiformità, che gioca con il caos del mondo come un colpo di dadi, in modo da raffigurare il mondo non come una riproduzione “distorsiva” della realtà.
Insomma l’arte propone una “riproduzione” adesiva delle cose confacendosi ai lineamenti della cosa. Mentre la visione scientifica delle cose propone una riproduzione “distorsiva” delle cose.
La creazione artistica è operazione giocosa di una soggettività fantasiosamente artistica, umana o antropomorficamente divina che sia. Allontanarsi dal “mondo spettrale” dei concetti significa vivere in un altro modo, ovvero, nel gioco o nel divenire il divenire stesso. L’Arte cambia e gioca con la qualità dell’impalcatura dei concetti.
Quindi la “lingua scientifica” è volatilizzare le metafore, è un andare al di là delle cose perdendone il contatto intuitivo. Invece la “lingua artistica” è uno stare prossimo alle cose, è un essere consonante alle cose, insomma è un modo di essere più prossimo alle cose stesse, all’apparire, all’apparizioni ma anche alle illusioni.
L’arte assume il cammino delle intuizioni. Questo cammino non è regolare e non conduce alla “terra degli schemi, delle astrazioni”: uomo, creando artisticamente, si rivolge ad “inauditi costrutti concettuali”, ovvero, frantuma e deride le “vecchie barriere concettuali”. L’uomo, creando artisticamente, si pone nella “sella delle apparenze”, cercando di andare alle cose stesse. Invece il metodo razionale, frutto della “costruzione dei concetti” in modalità scientifica, si pone a distanza dalle cose stesse o meglio via.
Proseguiamo con la lettura di Nietzsche e il suo paragrafo [10 Uomo razionale e Uomo Intuitivo]:
<< Ci son tempi in cui l’uomo razionale e l’uomo intuitivo stanno l’uno accanto all’altro, l’uno in angoscia di fronte all’intuizione, l’altro con scherno sopra l’astrazione. L’ultimo altrettanto non-razionale quanto non-artistico sia il primo.
Entrambi desiderano dominare sulla vita: questo affrontando le necessità principali con previdenza, intelligenza, regolarità, l’altro non vedendo quelle necessità in quanto “eroe ultra-gioioso” e prendendo per reale soltanto la vita trasposta in parvenza e in bellezza dalla finzione.
Allorquando l’uomo intuitivo, press’a poco come nella Grecia più antica, maneggia le sue armi più potentemente e più vittoriosamente del suo antagonista, in caso favorevole può formarsi una cultura, e fondarsi il dominio dell’arte sulla vita. Quella finizione, quel rinnegare la miseria, quello splendore delle intuizioni metaforiche e in genere quell’immediatezza dell’inganno accompagna tutte le manifestazioni di una vita siffatta. Né la casa, né il passo, né la vesta, né la brocca d’argilla tradiscono che li inventò il bisogno. Sembra come se in tutti loro dovesse esprimersi una sublime felicità e una serenità olimpica e per così dire un giocar con ciò che è serio.
Mentre l’uomo guidato da concetti e astrazione grazie a questi solo respinge l’infelicità, senza dalle astrazioni stesse estorcere per sé felicità, mentre egli tende verso la maggiormente possibile libertà dai dolori, l’uomo intuitivo, stando al centro d’una cultura, raccoglie già dalle sue intuizioni, oltre alla difesa dal male, una rischiarazione, rasserenazione, una redenzione che affluisce continuamente. Certamente egli soffre più intensamente, quando soffre. Anzi egli soffre più spesso, perché non sa imparare dall’esperienza e cade sempre di nuovo nello stesso pozzo in cui era caduto una volta. Nel dolore poi è altrettanto irrazionale quanto nella felicità, grida forte e non trova consolazione alcuna.
Come diversamente sta lì ritto sotto la medesima sventura l’uomo stoico, istruito presso l’esperienza, autodominantesi per mezzo dei concetti! Egli, che altrimenti cerca solo rettitudine, verità, libertà dagl’inganni e protezione di fronte ad aggressioni fascinanti, depone ora, nell’infelicità, il capolavoro della finzione, come quello nella felicità. Egli non porta un volto d’uomo guizzante e mobile, bensì per così dire una maschera con dignitoso equilibrio di tratti, egli non grida e non altera nemmeno una volta la sua voce. Se una vera e propria nube temporalesca si riversa su di lui, egli allora si avvolge nel suo mantello e con lento passo sotto di essa se ne va. >>
Sono individuabili due tipi di uomini, l’uomo razionale e l’uomo intuitivo, impersonificati dallo scienziato e dall’artista. Il filosofo può propendere sia più verso l’uno sia più verso l’altro tipo ideale.
L’Uomo Razionale prova angoscia verso l’intuizione e affronta la vita con previdenza e regolarità. Respinge l’infelicità con le astrazioni concettuali ma non arriva mai a conseguire la felicità. È simile ad un uomo stoico che “se una vera e propria nube temporalesca si riversa su di lui, egli allora si avvolge nel suo mantello e con lento passo sotto di essa se ne va”.
L’uomo intuitivo prova scherno verso l’astrazione. È un eroe ultra-gioioso che prende la vita in parvenza e in bellezza dalla finzione. È uno uomo che soffre di più dato che è un uomo guizzante e mobile. Può fondare una cultura ed esprime “una sublime felicità e una serenità olimpica”. È uno giocare con ciò che è serio.
La scienza è un “episteme sulla cosa”. Cerca di imporre un regolare punto di fissazione alla realtà caotica. La sua necessità principale è una sorta di controllo, di irrigidimento, di disciplinamento.
L’arte, interpretata dall’Eroe ultra-gioioso, si fa gioco, scherno della necessità della scienza. L’artista prende per vero le illusioni e soprattutto rigetta quella necessita di dover tener sotto controllo la realtà per mezzo di astrazioni. L’artista si avvicina alla vita e al mondo attraverso un ulteriore piano delle finizioni, del desiderio.
Il desiderio alla vita e al vivere dell’Eroe ultra-gioioso è di introdurre la vittoria della cultura artistica (ad esempio la Tragedia) sulla cultura scientifica. È uno stare nella vita e sulla vita non piegandola mai su se stessa, ma condividendola o accettandola in ogni suo aspetto, soprattutto il soffrire e il dolore. L’Eroe ultra-gioioso è come se avesse consapevolezza dell’unità dialettica, ovvero, la Felicità e l’Infelicità.
Da una parte la scienza promuovendo un’impalcatura dei concetti procede verso una stabilizzazione e “messa in sicurezza” riguardo alla propria vita, ma non coglie come l’Arte fa, che il mondo è accidente, è sogno, è illusione, è caos. Nel campo della Scienza l’Intelletto era il “servo” o lo strumento per auto-conservare la Vita umana in una realtà instabile come il mondo.
Mentre l’Arte accoglie l’irregolarità, l’illusione, la finzione. Proprio per questi motivi la razionalità si premuniva con la regolarità della “costruzione dei concetti”. Ma l’arte gioca con questa serietà non allontanandosi più dalla cosa in sé, ma ponendosi in conflitto e intensione con una realtà sempre caotica.
Pertanto il “cosmo” scientifico è sempre esposto al “caos” della vita. Perciò la vita è un patire, è un pathos. Difatti l’artista << certamente soffre più intensamente quando soffre. Anzi egli soffre più spesso, perché non sa imparare dall’esperienza e cade sempre di nuovo nello stesso pozzo (qui riferimento al Teeteto di Platone) in cui era caduto una volta. Nel dolore poi è altrettanto irrazionale quanto nella felicità, grida forte e non trova consolazione alcuna >>.
L’uomo ha in sé la compresenza di due modi di essere riguardo all’essere umano. E sono due modi completamenti diversi di elaborare “cultura”. L’arte accoglie il “caos” della vita con tutte le sue contraddizioni selvagge, mentre, la scienza costruisce un “cosmo” concettuale che sia abbastanza rassicurante da porsi in difesa dell’auto-conservazione.
Il pensiero fondamentale della cultura è che ciò che è stato grande, ciascun momento della storia individuale o dell’umanità che abbia saputo elevarsi, congiuntamente ad ogni altro altrettanto elevato seppur differente, eternamente debba trasmettere tale suo significato superiore, immortale e degno di gloria imperitura, nonostante l’avversione e la vera e propria lotta che si scatena contro di esso da parte di ciò che è meschino e incapace del suo scherno e distacco rispetto agli aspetti caduchi del proprio stesso esistere mortale.
Al centro della cultura, capace di dischiudere felicità attraverso la creatività del mito e dell’arte in genere, sta l’uomo intuitivo.
Invece l’uomo razionale e la scienza, capace solo di fredde astrazioni concettuali, non riesce che ad arginare il bisogno e limitare l’infelicità, conservando per quanto si possa, l’individuo, comunque mortale, senza elevarlo alla bellezza e gioia e gloria della cultura.
[1] Vitam impendere vero:
Sacrificare la vita per la verità (Giovenale, Satira IV, 91).
Si racconta fosse uno dei motti più cari a Jean-Jacques Rousseau grande ammiratore di Socrate testimone di una strenua ricerca della verità sino al martirio. Da Boezio a Tommaso Moro, da Angelo Vassallo alla giornalista Anna Politkovskaja, da Galileo a mons. Romero per non citare che alcuni personaggi a tutti noti riusciamo ad immaginare le migliaia di sconosciuti che non si sono piegati a nessun compromesso a costo della loro vita?
[2] INFORMAZIONI PERSONALI
Felice Ciro Papparo è nato a Napoli il 30 gennaio 1954.
– Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”, conseguita nel marzo del 1979, con
una tesi su “Corporeità e soggettività nell’opera di G. Bataille”, riportando la votazione di 110 e lode.
– Dottorato in Filosofia (1984-1986), conseguito presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”,
presentando una dissertazione finale sul tema: “La sovranità del possibile nei Cahiers di Paul Valéry”.
– Dal 1989 al 2006 ha lavorato presso il Dipartimento di Filosofia della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, assegnato alla cattedra di Filosofia Morale (prof. A. Masullo,
poi prof. G. Cantillo).
Dal 1° novembre 2006 è Professore Associato di Filosofia Morale nella Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università “Federico II” di Napoli, dove insegna “Storia della filosofia morale” (laurea triennale in
Filosofia) ed “Etica sociale” (laurea triennale in “Servizi sociali”).
ALTRO
– Dal 1991, membro del gruppo Chaosmos – un collettivo di scrittori, filosofi e sociologi attivo a Napoli con
seminari, iniziative culturali e una pubblicazione annuale.
– Dal 1996 al 2000, nel quadro delle attività scientifiche del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Napoli,
organizza i seguenti seminari:
L’Amor precede tutti gli altri déi – Tra G. Bruno e S. Freud, maggio 1996;
I filosofi: la ragione e la follia (in collaborazione con G. Borrelli), 1997/1998;
La guerra, nostra Madre?, 1998/1999;
Modi del patire e pratiche di libertà (in collaborazione con G. Borrelli), 1999/2000.
– Dal 1997, collaboratore delle riviste milanesi “Il piccolo Hans -Il Cefalopodo”, e “Ambulatorio”, dirette dagli
psicoanalisti Sergio Finzi e Virginia Finzi Ghisi, e dei loro seminari di pratica freudiana, per i quali ha tenuto
le seguenti lezioni:
Straniero nella patria del linguaggio, 2001;
Futuro della comunità e analisi delle Potenze psichiche (in collaborazione con B. Moroncini), 2002/3;
Le inibizioni del pensiero: “Sempre che l’uomo pensa, ei desidera…”, 2004/5;
Le comparse della decisione, 2005/6;
Come le stesse cose possono essere diverse: classificazione e forme della clinica. L’antropologia
pragmatica di Kant, 2006/7.
– Nel 2006, organizza un congresso internazionale di studi sulla figura e l’opera di Paul Valéry, con il tema
Tempi del mondo, tempi dell’individuo. Paul Valery allo specchio della storia (Napoli, 8 e 9 marzo).
– Nel 2007, organizza un congresso internazionale di studi sulla figura e l’opera di Georges Bataille, dedicato
a L’etica impossibile di Bataille (Napoli, 14 e 15 giugno).
– Nel 2008, partecipa al congresso di studi Ambivalenza del male, organizzato dalla rivista Kainos (Napoli, 8
e 9 maggio).
INTERESSI E AREE DI RICERCA
Figure di riferimento:
- Valéry, G. Bataille, G.W.F. Hegel, F. Nietzsche, M. Henry, G. Bruno, F. Kafka, S. Freud.
Temi:
Interessato prevalentemente alle questioni riguardanti la costituzione della soggettività, di un divenire
soggettivo che non potesse essere per nulla concepito in modo disincarnato, fuori cioè dei processi
‘espressivi’ del corpo e della sua ‘grande ragione’ (Nietzsche) e alle ricadute in senso antropologico ed etico
dell’agire soggettivo, le sue ricerche, privilegiando il campo e l’orizzonte filosofico, si sono svolte anche in
connessione con quei saperi – psicoanalitici e letterari – che hanno fornito, nel novecento in modo
particolare, strumenti precisi e peculiari per approfondire la dimensione della soggettività.
Consapevole che una tale dimensione non possa più essere ‘giocata’ o assegnata solo all’ambito
strettamente disciplinare della filosofia, e che, sulla definizione stessa di soggettività, la ‘contaminazione’ con
altri saperi è quantomai decisiva e irreversibile, il suo interesse scientifico si è articolato, nel corso del tempo,
in un serie di ‘sondaggi’ – con un’intersezione costante fra autori ‘non filosofici’ e autori direttamente filosofici
– per rendere visibile la necessità di una contaminazione produttiva tra filosofia e altri saperi, che tenesse
però fermo l’orizzonte teoretico e insieme morale delle questioni poste da quegli autori
[3] impendo, is, pendi, pensum, ĕre
v tr spendere, dedicare, impiegare, sacrificare, uccidere.
[4]amicus Plato, sed magis amica veritas Sentenza lat. «amico [è] Platone, ma più amica la verità». Nella forma originaria amicus Socrates, sed magis amica veritas la frase è attribuita da Ammonio, nella sua Vita di Aristotele, a Platone insieme ad altra analoga (Socrates quidam parum curandus, et veritas plurimum) tratta effettivamente dal Fedone (91 C). Anche Aristotele esprime nell’Etica Nicomachea (I, 4, 1096 a 16) un eguale concetto («pur essendo care entrambe le cose [cioè gli amici e la verità], è dovere morale preferire la verità»): ciò ha fatto sì che la tradizione abbia poi attribuito anche, o esclusivamente, a lui tale sentenza, dapprima aggiungendo al nome di Socrate quello di Platone (cfr. Lutero, De servo arbitrio: «amicus Plato, amicus Socrates, sed prehonoranda veritas»), quindi sostituendolo del tutto (cfr. Cervantes, Don Chisciotte, II, 51, che sembra sia stato il primo a citare la sentenza nella forma poi divenuta comune).
Amicus Plato, sed magis amica veritas, Platone mi è amico, ma più amica mi è la verità, è una locuzione latina.[1]
Nel Libro X della Repubblica, Platone in merito alla condanna dell’arte imitativa, riferendosi ad Omero e alla poesia, afferma: «Eppur un certo affetto e rispetto che ho sin da bambino per Omero mi trattiene dal parlarne. Perché lui è stato, mi sembra, il primo maestro e la guida di tutti questi eccellenti tragici, Non si deve però onorare un uomo più della verità, ma, come io sostengo, bisogna parlarne»
Nell’anonima Vita Aristotelis Marciana, [2] una formula simile è attribuita a Platone il quale, riferendosi al suo maestro Socrate, avrebbe affermato: amicus Socrates, sed magis amica veritas. Espressione di significato analogo si ritrova infatti nel Fedone: «Socrates quidam parum curandus, et veritas plurimum» (Di Socrate ci si deve occupare un po’, ma della verità molto di più).[3]
Anche Aristotele si era espresso in maniera analoga affermando che: «pur essendoci care entrambe le cose [gli amici e la verità] è dovere morale preferire la verità».[4] La frase indica che Aristotele, nonostante apprezzasse l’amicizia non avrebbe rinunciato per amore della verità a criticare quelle dottrine che la mettessero in dubbio.
Anche se in realtà Aristotele non menzionò esplicitamente Platone, la tradizione ha poi attribuito a lui, o anche a lui, la formula in questione, inserendo nella medesima sia il nome di Socrate che quello di Platone: «Amicus Plato, amicus Socrates, sed prehonoranda veritas» (amico Platone, amico Socrate, ma al di sopra di tutto bisogna onorare la verità).[5] La forma della frase come oggi viene comunemente citata sembra risalire invece al XVII secolo.[6]
Note
^ Per uno studio approfondito vedere Leonardo Tarán, “Amicus Plato, sed magis amica veritas. From Plato and Aristotle to Cervantes”, in Antike und Abendland, 30, 1984, pp. 93-124 (ristampato in L. Tarán, Collected Papers (1962-1999), Leiden, Brill, 2001, pp. 1-46.)
^ Olof Gigon (a cura di) Vita Aristotelis Marciana, Berlino, Walter de Gruyter, 1962; cfr. Enrico Berti, La filosofia del “primo” Aristotele, Milano, Vita e Pensiero, 1997, p. 59 (prima edizione Padova, CEDAM, 1962).
^ Platone, Fedone, 91 C.
^ Aristotele, Etica nicomachea, I, 4, 1096 a 16.
^ Lutero, De servo arbitrio, Werke. Kritische Gesamtausgabe, Weimar, 1908, vol. 18, p. 610.
^ Miguel Cervantes, Don Chisciotte, II, 51.
[5] Il “Tempo” nelle Confessioni di S. Agostino di Michele Strazza
Nelle Confessioni di S. Agostino, opera scritta alla fine del IV secolo, in cui l’autore descrive le tappe della sua conversione e la sua ricerca della Grazia divina, particolare spazio è riservato al problema del tempo. Di esso Agostino si occupa nell’undicesimo libro dei tredici di cui è composta l’intera opera e lo fa all’interno del discorso sulla creazione.
Egli parte dalla insidiosa domanda, formulata dai filosofi pagani, in primis manichei e neoplatonici, su cosa facesse Dio ‘prima’ di creare il cielo e la terra?
Dio – afferma Agostino – ha creato il mondo non da una materia qualsiasi, ma dal nulla. Dal racconto della Genesi, infatti, si evince che egli creò anche la sostanza, non soltanto l’ordine e la disposizione delle cose. Nel momento stesso in cui Dio ha iniziato la creazione si è formato anche il tempo, egli è dunque l’iniziatore di ogni tempo. Così scrive Agostino:
Se qualche spirito leggero, vagolando fra le immagini del passato, si stupisce che tu, Dio che tutto puoi e tutto crei e tutto tieni, autore del cielo e della terra, ti sia astenuto da tanto operare, prima di una tale creazione, per innumerevoli secoli, si desti e osservi che il suo stupore è infondato. Come potevano passare innumerevoli secoli, se non li avessi creati tu, autore e iniziatore di tutti i secoli? Come sarebbe esistito un tempo non iniziato da te? e come sarebbe trascorso, se non fosse mai esistito? Tu dunque sei l’iniziatore di ogni tempo, e se ci fu un tempo prima che tu creassi il cielo e la terra non si può dire che ti astenevi dall’operare. Anche quel tempo era opera tua, e non poterono trascorrere tempi prima che tu avessi creato un tempo. Se poi prima del cielo e della terra non esisteva tempo, perché chiedere cosa facevi allora? Non esisteva un allora dove non esisteva un tempo[1].
In queste riflessioni, originate dal commento ai primi versetti della Genesi, Agostino opera quasi una “cucitura” tra la prima parte dell’opera, dedicata al racconto del vissuto dell’autore, e questa incentrata sulla creazione del mondo. Crea, cioè, un collegamento tra storia personale e storia del mondo. Dio – dice Agostino – è eterno, nel senso che è senza tempo. Per lui non esisteva un prima e un dopo, ma solo un eterno presente:
Ma non è nel tempo che tu precedi i tempi. Altrimenti non li precederesti tutti. E tu precedi tutti i tempi passati dalla vetta della tua eternità sempre presente; superi tutti i futuri, perché ora sono futuri, e dopo giunti saranno passati. Tu invece sei sempre il medesimo, e i tuoi anni non finiscono mai. I tuoi anni non vanno né vengono; invece questi, i nostri, vanno e vengono, affinché tutti possano venire. I tuoi anni sono tutti insieme, perché sono stabili; non se ne vanno, eliminati dai venienti, perché non passano. Invece questi, i nostri, saranno tutti quando tutti non saranno più. I tuoi anni sono un giorno solo, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non è successo all’ieri. Il tuo oggi è l’eternità. Perciò generasti coeterno con te Colui, cui dicesti: “Oggi ti generai”. Tu creasti tutti i tempi, e prima di tutti i tempi tu sei, e senza alcun tempo non vi era tempo. Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l’hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo[2].
Riflessioni simili saranno, poi, espresse nel De civitate Dei dove Agostino sosterrà che non si può parlare di creazione «nel tempo», perché non può esserci tempo prima che esista la creatura mutabile, ma si deve parlare di creazione col «tempo»[3].
Sempre nel De civitate Dei, di fronte ai filosofi pagani che affermavano l’immutabilità divina, la quale, senza mutare, non può aver prima non creato e poi creato, Agostino controbatterà che «Dio sa agire nel riposo e riposare nell’azione. Ad opera nuova può applicare un piano non nuovo ma eterno». Parlare di un «prima» e di un «dopo» non ha senso per Dio che, avendo «una sola, immutabile, eterna volontà» fece in modo «che le cose create non fossero prima quando non erano e fossero dopo quando cominciarono ad esistere»[4].
Ritornando alle Confessioni, il vescovo di Ippona, partendo dall’eternità di Dio, dal suo essere sciolto da ogni concetto di tempo, in quanto suo creatore e iniziatore, elabora la sua affascinante teoria del tempo. Egli innanzitutto si chiede che cosa sia il tempo e fornisce una risposta singolare. Egli dice: «Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». L’unica cosa che per lui sembra essere acquisita è la presenza di un passato e di un futuro. Infatti «senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente»[5].
Ma subito dopo egli stesso mette in dubbio tale affermazione, perché come farebbero ad esistere il passato e il futuro «dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? ». E anche lo stesso presente – egli dice – se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità: «Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere»[6].
Di qui le perplessità di Agostino. Il passato e il presente, in definitiva, non esisterebbero. Il primo, infatti, non è più esistente, mentre il secondo non esiste ancora. Ma anche il presente, in fondo, è solo un momento che si traduce in passato e, in quanto tale, esso non esiste. Però, dice Agostino:
parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendosi soltanto al passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima; e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi, di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque non dovremmo dire di un tempo che è lungo, ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che sarà lungo. Signore mio, luce mia, la tua verità non deriderà l’uomo anche qui? Perché, questo tempo passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quando era ancora presente? Poteva essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta passato, non era più, e dunque non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto. Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremo nulla, che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. Diciamo invece che fu lungo quel tempo presente, perché mentre era presente, era lungo. Allora non era già passato, così da non essere; era una cosa, che poteva essere lunga. Appena passato, invece, cessò all’istante di essere lungo, poiché cessò di essere[7].
E, dopo le considerazioni sulla misurazione del tempo passato e di quello futuro, il vescovo di Ippona parla della durata del tempo presente, giungendo alle stesse conclusioni esposte per i due tempi precedenti:
Consideriamo dunque, anima umana, essendoti dato di percepire e misurare le more del tempo, se il tempo presente può essere lungo. Che mi risponderai? Cento anni presenti sono un tempo lungo? Considera prima se possano essere presenti cento anni. Se è in corso il primo di questi cento anni, esso è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, quindi non sono ancora. Se invece è in corso il secondo anno, il primo è ormai passato, il secondo presente, tutti gli altri futuri. Così per qualsiasi anno intermedio nel numero dei cento, che si supponga presente: gli anteriori saranno passati, i posteriori futuri. Perciò cento anni non potranno essere tutti presenti. Considera ora se almeno quell’unico che è in corso sia presente. Se è in corso il primo dei suoi mesi, tutti gli altri sono futuri; se il secondo, il primo è ormai passato, gli altri non sono ancora. Dunque neppure l’anno in corso è presente tutto, e se non è presente tutto, un anno non è presente, perché un anno si compone di dodici mesi, e ciascuno di essi, qualunque sia, è presente quando è in corso, mentre tutti gli altri sono passati o futuri. Ma poi, neppure il mese in corso è presente: è presente un giorno solo, e se il primo, tutti gli altri sono futuri; se l’ultimo, tutti gli altri sono passati; se uno qualunque degli intermedi, sta fra giorni passati e futuri[8].
Il presente, allora, si ridurrebbe ad un solo giorno. Ma anche un solo giorno non potrebbe chiamarsi presente:
Ecco cos’è il tempo presente, l’unico che trovavamo possibile chiamare lungo: ridotto stentatamente alla durata di un giorno solo. Ma scrutiamo per bene anche questo giorno, perché neppure un giorno solo è presente tutto. Le ore della notte e del giorno assommano complessivamente a ventiquattro. Per la prima di esse tutte le altre sono future, per l’ultima passate, per qualunque delle intermedie passate le precedenti, future le seguenti. Ma quest’unica ora si svolge essa stessa attraverso fugaci particelle: quanto ne volò via, è passato; quanto le resta, futuro. Solo se si concepisce un periodo di tempo che non sia più possibile suddividere in parti anche minutissime di momenti, lo si può dire presente. Ma esso trapassa così furtivamente dal futuro al passato, che non ha una pur minima durata. Qualunque durata avesse, diventerebbe divisibile in passato e futuro; ma il presente non ha nessuna estensione. Dove trovare allora un tempo che possiamo definire lungo? Il futuro? Non diciamo certamente che è lungo, poiché non è ancora, per poter essere lungo; bensì diciamo che sarà lungo. Quando lo sarà? Se anche allora sarà ancora futuro, non sarà lungo, non essendovi ancora nulla, che possa essere lungo; se sarà lungo allora, quando da futuro ancora inesistente sarà già cominciato ad essere e sarà diventato presente, così da poter essere qualcosa di lungo, con le parole or ora riferite il tempo presente grida di non poter essere lungo[9].
Eppure, dice Agostino, «noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l’uno è più lungo o più breve di un altro». Ma – egli precisa – si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo. Essa è, dunque, legata a una nostra percezione: «I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l’inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è»[10].
Ma, seppur lentamente, ecco che Agostino comincia a intravvedere una via d’uscita a questi dubbi amletici. Dopo aver ribadito che la sua è una ricerca, non un affermazione, così continua il suo ragionamento:
Chi vorrà dirmi che non sono tre i tempi, come abbiamo imparato da bambini e insegnato ai bambini, ossia il passato, il presente e il futuro, ma che vi è solo il presente, poiché gli altri due non sono? O forse anche gli altri due sono, però il presente esce da un luogo occulto, allorché da futuro diviene presente, così come si ritrae in un luogo occulto, allorché da presente diviene passato? In verità, chi predisse il futuro, dove lo vide, se il futuro non è ancora? Non si può vedere ciò che non è. Così chi narra il passato, non narrerebbe certamente il vero, se non lo vedesse con l’immaginazione. Ma se il passato non fosse affatto, non potrebbe in nessun modo essere visto. Bisogna concludere che tanto il futuro quanto il passato sono[11].
La conclusione è, dunque, che sia il passato che il futuro hanno una loro esistenza. Ma la ricerca continua:
Se il futuro e passato sono, desidero sapere dove sono. Se ancora non riesco, so tuttavia che, ovunque siano, là non sono né futuro né passato, ma presente. Futuro anche là, il futuro là non esisterebbe ancora; passato anche là, il passato là non esisterebbe più. Quindi ovunque sono, comunque sono, non sono se non presenti. Nel narrare fatti veri del passato, non si estrae già dalla memoria la realtà dei fatti, che sono passati, ma le parole generate dalle loro immagini, quasi orme da essi impresse nel nostro animo mediante i sensi al loro passaggio. Così la mia infanzia, che non è più, è in un tempo passato, che non è più; ma quando la rievoco e ne parlo, vedo la sua immagine nel tempo presente, poiché sussiste ancora nella mia memoria. Se sia analogo anche il caso dei fatti futuri che vengono predetti, se cioè si presentano come già esistenti le immagini di cose ancora inesistenti, confesso, Dio mio, di non saperlo. So però questo, che sovente premeditiamo i nostri atti futuri, e che tale meditazione è presente, mentre non lo è ancora l’atto premeditato, poiché futuro. Solo quando l’avremo intrapreso, quando avremo incominciato ad attuare il premeditato, allora esisterà l’atto, poiché allora non sarà futuro, ma presente[12].
Ecco la soluzione che propone Agostino: il passato ed il futuro possono essere pensati solo come presente, il passato come «memoria», il futuro come «attesa», e la memoria e l’attesa sono entrambe fatti presenti. Ed il presente è la «visione»:
Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa. Mi si permettano queste espressioni, e allora vedo e ammetto tre tempi, e tre tempi ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro, secondo l’espressione abusiva entrata nell’uso; si dica pure così: vedete, non vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo esattamente; per lo più ci esprimiamo inesattamente, ma si riconosce cosa vogliamo dire[13].
Ma Agostino non è ancora soddisfatto delle sue conclusioni e prega Dio di illuminarlo perché egli confessa di ignorare ancora che cosa sia il tempo, di ignorare, addirittura, che cosa ignora. Così, dopo aver espresso l’ulteriore dilemma della misurazione del tempo e delle sue difficoltà insanabili, ecco che Agostino giunge alla spiegazione finale, cioè che il tempo si misura nello spirito umano:
È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L’impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l’estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato[14].
l tempo, dunque, per Agostino, è una dimensione dell’anima, è la coscienza stessa che si dilata sino ad abbracciare col presente anche il passato e l’avvenire. Il tempo è, perciò, una dimensione del soggetto, è lo spirito umano che raccoglie in unità la pluralità delle esperienze esterne disperse.
La soluzione del dilemma che l’ha afflitto sta, dunque, nell’abbandono di una logica solo naturalistica. Il tempo non è una cosa, né una proprietà delle cose, ma una relazione; una relazione fra le cose che passano e l’interiorità spirituale della creatura umana, che le sottrae all’oblio, serbandole nella memoria, ricordandole e riconoscendole come parte della propria storia.
Il tempo è, quindi, visto da Agostino in una dimensione soggettiva. Non a caso egli è considerato dalla maggior parte della critica come padre dell’ermeneutica del tempo in chiave soggettiva[15].
Il tempo risiede, dunque, nella mente umana perché è proprio questa che attende, considera e ricorda. Del resto, nel libro precedente, il decimo, egli aveva trattato proprio della memoria. Così Agostino:
Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe il passato, che non è più, se non per l’esistenza nello spirito, autore di questa operazione, dei tre momenti dell’attesa, dell’attenzione e della memoria? Così l’oggetto dell’attesa fatto oggetto dell’attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito l’attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l’attenzione, davanti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente, non è lungo, ma un lungo futuro è l’attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato, inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato[16].
La conclusione finale cui giunge Agostino è allora che non vi può essere tempo senza un essere creato e che, perciò, parlare di tempo prima della creazione è assurdo. Il tempo, dunque, non va cercato all’esterno, ma nell’animo umano e in esso si misura. Esso è situato dentro una dialettica personale tra intentio e distentio. Dice, infatti, Agostino: «Dimentico delle cose passate, né verso le future, che passeranno, ma verso quelle che stanno innanzi non disteso, ma proteso, non con distensione, ma con tensione inseguo la palma della chiamata celeste»[17].
L’intentio esprimerebbe, allora, la tensione dello spirito umano verso il trascendente, mentre la distentio, al contrario, sarebbe una sorta di “dilatazione” dello spirito all’interno di sé. E proprio da tale dilatazione nascerebbe il senso della profondità temporale. La distentio rappresenterebbe, quindi, l’unica maniera con cui l’uomo concepisce e vive il tempo, cioè come “dilatazione spirituale” (distentio animi) in avanti.
Il tempo diventa, allora, per Agostino «la dimensione del mondo creato e la sua realtà è la realtà della creatura». L’uomo si presenta, quindi, «come un secondo creatore, perché grazie alla sua capacità di riunire passato, presente e futuro, vive la sua dimensione temporale da protagonista per mezzo dell’anima che gli è stata partecipata da Dio»[18].
Non è mancato chi, come Guido Mancini, abbia voluto vedere nel concetto agostiniano del tempo, seppur con le dovute distinzioni, una influenza di Plotino che, nelle Enneadi, definiva il tempo come ζωη ψυκης (vita dell’anima), nel movimento per cui essa passa da un atto all’altro[19]. Di contro, però, è stato osservato che la concezione di Plotino è tutt’altro che soggettiva. Per lui, ad esempio, la memoria è l’orizzonte tra il tempo della storia e il tempo dell’eternità[20].
Diverso, invece, il percorso di Agostino, la cui indagine non ha finalità puramente intellettuali, implicando innanzitutto quelle religiose. La scoperta che passato, presente e futuro non sono realtà oggettive ma coesistono solo nell’anima pone il problema di come il cristiano debba rapportarsi al tempo: «La capacità di accumulare un’infinita varietà di esperienze implica per l’anima il rischio di attaccarsi ad esse, disperdendosi nella molteplicità». Di contro, l’uomo, anche se immerso nella successione delle esperienze temporali, deve tendere a superare «la dissipazione che consegue all’amore delle realtà temporali, e perciò effimere, e congiungersi col vero Bene, che non passa ma permane eternamente»[21]. Così Agostino:
Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite, ecco che la mia vita non è che distrazione, mentre la tua destra mi raccolse nel mio Signore, il figlio dell’uomo, mediatore fra te, uno, e noi, molti, in molte cose e con molte forme, affinché per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l’Uno.[…] Allora udrò la voce della tua lode e contemplerò le tue delizie, che non vengono né passano. Ora i miei anni trascorrono fra gemiti, e il mio conforto sei tu, Signore, padre mio eterno. Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l’ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplicità tumultuose. Fino al giorno in cui, purificato e liquefatto dal fuoco del tuo amore, confluirò in te[22].
Per il vescovo di Ippona l’anima è, perciò, chiamata a trascendere la dimensione temporale dell’esistenza, «tanto che quella sua proprietà che è la distentio, la capacità di abbracciare passato, presente e futuro, acquista ora una portata negativa e diventa, in una prospettiva non analitica ma valutativa, dispersione che impedisce l’unione con Dio». All’uomo, dunque, proprio in quanto immerso nel tempo, si presenterebbe questa scelta: chiudersi in esso o trascenderlo, aprendosi all’Eterno: «Il tempo è perciò il luogo della perdizione, ma anche della salvezza, perché in esso l’uomo decide se attaccarsi ai beni di questo mondo o servirsene per elevarsi a Dio»[23].
[1] S. Agostino, Le Confessioni, XI, 13, 15.
[2] Ivi, XI, 13, 16; 14, 17.
[3] S. Agostino, De civitate Dei, 11, 6.
[4] Ivi, 12, 16, 2.
[5] S. Agostino, Le Confessioni, XI, 14, 17.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, XI, 15, 18.
[8] Ivi, XI, 15, 19.
[9] Ivi, XI, 15, 20.
[10] Ivi, XI, 16, 21.
[11] Ivi, XI, 17, 22.
[12] Ivi, XI, 18, 23.
[13] Ivi, XI, 20, 26.
[14] Ivi, XI, 27, 36.
[15] In tal senso si vedano, tra gli altri, Berlinger R., Il tempo e l’uomo, in “Année théologique Augustinienne”, 1953, pp. 260-279, nonché Moreau J., Le temps et la création selon Saint Augustin, in “Giornale di Metafisica”, 1965, pp. 276-290. Contro la tesi di un soggettivismo assoluto si veda, invece, Alici L., La funzione della Distensio nella dottrina agostiniana del tempo, in “Augustinianum”, 15, 1975, pp. 325-345. Per un quadro d’insieme cfr. Taranto S., L’Orizzonte dell’Assoluto: il tempo della libertà, Botosani, Axa Ed., 2000, pp. 113-117.
[16] S. Agostino, Le Confessioni, XI, 28, 37.
[17] Ivi, XI, 29, 39.
[18] Santochirico G., Il caso tra scienza e filosofia, Roma, Armando ed., 2003, p. 129.
[19] Cfr. Mancini G., La psicologia di S. Agostino e i suoi elementi neoplatonici, Napoli, Casa ed. Rondinella, 1938.
[20] A tale proposito si veda Guidelli C., Note sul tema della memoria nelle Enneadi di Plotino, in “Elenchos”, 9, 1988, pp. 75-94.
[21] Rindone E., Il problema del tempo e della storia nella filosofia medioevale, in “Il Giardino dei Pensieri. Studi di storia della Filosofia”, novembre 2003.
[22] S. Agostino, Le Confessioni, XI, 29, 39.
[23] Rindone E., op. cit.
Aggiunto il 24/11/2015 11:45 da Michele Strazza
Disciplina: Filosofia antica
Autore: Michele Strazza
[6] In tedesco significa, in prima approssimazione, “radura” o “slargo”, ossia, un luogo che è stato aperto alla luce mediante un’operazione di diradamento.
Heidegger parla di Lichtung a proposito dell’evento della disvelatezza dell’Essere (<<l’Essere è il destino della Raduna >>), cioè in relazione all’Essere in quanto orizzonte di manifestazione e visibilità degli enti. Pur non negando che la Licthung contenga un richiamo alla luminosità – che è implicita nella nozione di disvelatezza dell’Essere -, il 2° Heidegger insiste sempre più sul fatto che Lichtung, più che da Licht (“luce”), deriva dal verbo lichten, che significa “liberare, affrancare, portare all’aperto”, aggiungendo che lichten dipende da leict (“lieve”).
<< Alleviare, alleggerire una cosa significa eliminare gli ostacoli, condurla in un ambiente senza resistenze, nello spazio libero. Levare l’ancora vuol dire: liberarla dal fondo marino che la serra tutt’attorno ed elevarla nello spazio libero dell’acqua e dell’aria >> (Filosofia e cibernetica: cit. pagina 42).
Nello stesso tempo, Heidegger non ha potuto fare a meno di ribadire che Lichtung (“radura”) e Licht (“luce”), pur non essendo etimologicamente e semanticamente unite, presentano tra loro una certa connessione. Non nel senso che sia la luce a generare la radura (che è tale anche di notte), ma nel senso che è la radura a creare le condizioni per il riflettersi della luce
[7] Al di là del bene e del male: Preludio di una filosofia dell’avvenire (Jenseits von Gut und Böse, 1886) è un saggio filosofico di Friedrich Nietzsche, uno dei testi fondamentali della filosofia del XIX secolo.
Pubblicato nel 1886 a spese dell’autore, il libro non ricevette inizialmente molta attenzione. Sostanzialmente in esso Nietzsche attacca in maniera critica quella che considerava la vacuità morale dei pensatori del suo secolo, la mancanza di senso critico dei filosofi e la loro passiva accettazione della morale.
Al di là del bene e del male ripercorre tutti i temi fondamentali della maturità filosofica di Nietzsche e in parte può essere letto come una spiegazione, in termini più diretti, delle idee che l’autore aveva già proposto, in modo più immaginifico e metaforico, in Così parlò Zarathustra (Also Sprach Zarathustra).
[8] Tutta la riflessione aristotelica sulle sostanze nasce dalla critica alla dottrina platonica delle idee. Critica che hai il suo bersaglio polemico forte, come abbiamo detto, nel chorismòs, cioè nella separazione, posta dai platonici, fra le idee egli enti individuali.
Secondo Aristotele, Platone, ponendo un’idea separata per ciascun genere e ciascuna specie di realtà sensibili, non ha spiegato gli enti, ma ne ha aumentato il numero. Il suo scopo era quello di individuare nell’idea, cioè nell’universale, l’oggetto della scienza. Questo è assolutamente corretto: la scienza, infatti, è possibile solo dell’universale e non c’è scienza del particolare. Ma, come scrive Casertano, non bisogna, secondo Aristotele, separare, bisogna soltanto distinguere l’universale dall’individuale. Se, per spiegare il possesso della determinazione universale “uomo”, comune a tutti gli uomini particolari, si pone tale determinazione universale come separata da essi, accadrà infatti che, per spiegare poi il possesso di tale determinazione “uomo”, comune sia all’universale “uomo” sia agli uomini particolari, si dovrà porre una terza determinazione di “uomo”, a sua volta separata, e questo processo rischia di innescare un regresso all’infinito: si tratta dell’argomento del “terzo Uomo”, uno degli argomenti elaborati in ambiente accademico per criticare la teoria del chorismòs (l’argomento del Terzo Uomo è già nel Parmenide di Platone).
Le Idee, in quanto determinaizoni universali, sono, secondo Aristotele, sostanze seconde, dunque non possono esistere separatamente dai particolari di cui sono generi o specie. Le idee, cose sono state concepite da Platone, non spiegano né l’essere né il divenire delle cose, dunque sono inutili. Termini quali “modello”, “imitazione”, “partecipazione” non spiegano nulla e sono solo metafore poetiche!
Secondo Aristotele le Idee, anche se concepite come numeri. non possono esistere separatamente dalle cose, perché i numeri non sono sostanze, ma determinazioni quantitative delle sostanze. E sono, invece, solo le sostanze a poter esistere separatamente.
Rifiutando tutta la tradizione accademica che dopo la morte di Platone si orientava verso un’interpretazione matematizzante della filosofia, Aristotele, scrive Berti, rivendicava dunque l’importanza di una prospettiva scientifica che, recuperando la varietà di aspetti propri del mondo dell’esperienza, potesse rifondare l’intero assetto epistemologico della conoscenza.
Private dello statuto ontologico della separatezza, le idee da Aristotele sono considerate come realtà universali, come nozioni, linguisticamente come termini.
[9] “Fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorche prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto dal mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l’opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti. Questo indicavano i fatti, e la convinzione che le cose non potessero stare altrimenti prese il sopravvento. Non v’è dubbio che l’esistenza umana esprima il destino del dolore. Essa vi è profondamente immersa, non gli sfugge; il suo corso e la sua fine sono assolutamente tragici: non si può non riconoscervi una certa intenzionalità. E vero peraltro che il dolore è deuteros plous (seconda navigazione), cioè il surrogato della virtù e della santità. Purificati da esso giungiamo infine alla negazione della volontà di vita, al ritorno indietro dalla strada sbagliata, alla redenzione, ed è per questo che la potenza misteriosa che guida il nostro destino, e che secondo la credenza popolare è miticamente personificata dalla provvidenza, ha pensato di riservarci dolori su dolori. Al mio sguardo giovanile, parziale finché si vuole ma giusto nei limiti della sua prospettiva, il mondo si presentava dunque come l’opera di un demonio.” Schopenhauer
[10] ROUSSEAU
Ma Rousseau dove voleva lui in verità tornare? Rousseau, questo primo uomo moderno, idealista e canaille in una sola persona; che ebbe bisogno della dignità morale per sopportare il suo stesso aspetto; malato di una sfrenata vanità e di un illimitato disprezzo di sè. Anche questa creatura malriuscita, che ha preso posto sulla soglia della nuova età, voleva il ritorno alla natura: dove, chiediamo ancora una volta, voleva tornare Rousseau? Odio Rousseau anche nella Rivoluzione: essa é l’espressione nella storia universale di quella doppia natura d’idealista e di canaille. La farsa sanguinosa in cui questa rivoluzione si sviluppò, la sua ‘immoralità’, m’importa poco: quel che odio é la rousseauiana moralità- le cosiddette verità della rivoluzione con le quali essa continua sempre a esercitare i suoi effetti e a conciliarsi tutto ciò che é piatto e mediocre. La dottrina dell’uguaglianza! (Crepuscolo degli idoli, af. 48)
Il corruttore é Rousseau: toglie le catene alla donna, che da allora in poi viene rappresentata in modo sempre più interessante- come sofferente. (La volontà di potenza, af. 94)
Rousseau: la regola fondata sul sentimento, la natura come fonte della giustizia; l’uomo si perfeziona nella misura in cui si avvicina alla natura. […] Ma Rousseau rimase plebeo, anche come homme de lettres, cosa inaudita: disprezzava spontaneamente tutto ciò che lui stesso non era. Ciò che vi é di morboso in Rousseau fu sommamente ammirato e imitato. […] La difesa della provvidenza da parte di Rousseau: aveva bisogno di Dio per poter scagliare la propria maledizione sulla società e sulla civiltà; ogni cosa doveva essere buona in sè, poichè Dio l’ha creata: solo l’uomo ha corrotto l’uomo. (La volontà di potenza, af. 100)
Contro Rousseau. Se é vero che la nostra civiltà ha in sè qualcosa di miserando, avete la scelta di giungere, con Rousseau, all’ulteriore conclusione che “della nostra cattiva moralità ha colpa questa miserabile civiltà”, oppure, contro Rousseau, ritornare alla conclusione che “della nostra miserabile civiltà ha colpa la nostra buona moralità”. I nostri fiacchi, svirilizzati, sociali concetti di bene e male, e l’enorme strapotere di questi sull’anima e sul corpo hanno finito per infiacchire tutte le anime e i corpi e per infrangere gli uomini indipendenti, autonomi, spregiudicati, le colonne di una robusta civiltà: dove ancor oggi si incontra la cattiva moralità, si vedono le ultime rovine di queste colonne. “Così s’opponga paradosso a paradosso! Impossibile che la verità possa essere da tutte e due le parti; e in genere é da una di queste due parti? Lo si accerti”. (Aurora, af.163)
SCHOPENHAUER
Schopenhauer come cadenza finale (stato enteriore alla rivoluzione): compassione, sensualità, arte, debolezza della volontà, cattolicesimo dei desideri spirituali- questo ‘au fond’ é buon secolo XVIII. L’equivoco fondamentale sulla volontà in Schopenhauer (come se le brame, l’istinto, l’impulso fossero l’essenziale nella volontà) é tipico: svalutazione della volontà, fino a misconoscerla. Così pure l’odio contro il volere: tentativo di ravvisare nel non voler più, nell’ ‘essere un soggetto senza scopo nè intenzione’ ( nel ‘soggetto puro, privo di volontà’) qualcosa di superiore, anzi la cosa suprema, ciò che ha valore. Grande sintomo della stanchezza o della debolezza della volontà: perchè la volontà è precisamente ciò che tratta da padrona i desideri, prescrive loro il cammino e la misura… (La volontà di potenza, af. 84)
Schopenhauer appare come un tenace uomo morale che finisce per diventare un negatore del mondo al fine di mantenere la legittimità della sua valutazione morale. E da ultimo diventa ‘mistico’. Io stesso ho tentato una giustificazione estetica: come é possibile la bruttezza del mondo? (La volontà di potenza, af. 416)
Anche nel nostro secolo la metafisica di Schopenhauer ha dimostrato che anche adesso lo spirito scientifico non é ancora abbastanza forte; così l’intera concezione del mondo e il sentimento dell’uomo medievali e cristiani poterono ancora celebrare nella dottrina di Schopenhauer, nonostante la distruzione già da gran tempo raggiunta di tutti i dogmi cristiani, una resurrezione. Molta scienza echeggia nella sua dottrina, ma non essa la domina, bensì il vecchio e ben noto ‘bisogno metafisico’. Certo é uno dei massimi e affatto inestimabili vantaggi che traiamo da Schopenhauer il fatto che egli faccia temporaneamente indietreggiare il nostro sentimento verso antiche e possenti forme di contemplazione del mondo e degli uomini, a cui altrimenti nessun sentiero ci condurrebbe così facilmente. Il guadagno per la storia e per la giustizia é molto grande: io credo che oggi a nessuno potrebbe riuscire così facilmente, senza l’aiuto di v, di rendere giustizia al cristianesimo e ai suoi affini asiatici: cosa che é specialmente impossibile muovendo dal terreno del cristianesimo ancora esistente. (Umano, troppo umano; af. 25)
[11] Narciso (in greco antico: Νάρκισσος, Nárkissos) è un personaggio della mitologia greca, un cacciatore, famoso per la sua bellezza. Figlio della ninfa Liriope e del dio fluviale Cefiso[1][2] (o secondo un’altra versione di Selene ed Endimione[3]), nel mito appare incredibilmente crudele, in quanto disdegna ogni persona che lo ama. A seguito di una punizione divina si innamora della sua stessa immagine riflessa in uno specchio d’acqua e muore cadendo nel fiume in cui si specchiava.
Esistono diverse versioni del mito: una proviene dai papiri di Ossirinco ed è attribuita a Partenio; un’altra si trova nelle Narrazioni di Conone, datata fra il 36 a.C. e il 17 d.C.; mentre le più note sono la versione di Ovidio, contenuta nelle Metamorfosi, e quella di Pausania, proveniente dalla sua Guida o Periegesi della Grecia.
[12] (DE)
« Zwei Dinge erfüllen das Gemüt mit immer neuer und zunehmender Bewunderung und Ehrfurcht, je öfter und anhaltender sich das Nachdenken damit beschäftigt: Der bestirnte Himmel über mir, und das moralische Gesetz in mir. »
(IT)
« Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me. »
(Epitaffio di I. Kant, estratto dalla Critica della ragion pratica, Conclusione (Akademie Ausgabe V, 161.[1])
La Critica della ragion pratica (in originale Kritik der praktischen Vernunft) è un’opera di Immanuel Kant pubblicata nel 1788; è la seconda per ordine cronologico delle tre celebri Critiche di Kant, di cui fanno parte anche la Critica della ragion pura (1781) e la Critica del Giudizio (1790).
Nella Ragion pratica, il filosofo conduce l’analisi critica della ragione nel caso in cui essa sia indirizzata all’azione ed al comportamento, alla pratica per l’appunto. Lo scritto è affine ad altre due opere kantiane, la Fondazione della metafisica dei costumi (1785) e La metafisica dei costumi (1797): nella Fondazione e nella Critica Kant pone il problema della fondazione e dei principi della “critica”, in una parte della Metafisica dei costumi, dal titolo Dottrina della virtù (l’altra parte dell’opera è la Dottrina del diritto), Kant passa dalla “critica” al “sistema”, ovvero espone i “doveri” e la sua etica.
Come nella Ragion pura il filosofo si proponeva di mostrare non cosa l’uomo conosce, ma “come” conosce, ovvero evidenziare i principi della conoscenza umana, allo stesso modo ora si pone di fronte al problema della morale: egli non vuole definire quali precetti etici debbano essere seguiti dall’uomo, bensì “come” quest’ultimo debba comportarsi per compiere un’azione autenticamente morale, e quindi in cosa consiste realmente la morale. La morale della Critica della ragion pratica vuole essere, come già chiarisce la “Prefazione” all’opera, una morale formale, vuole indicare una “formula della moralità”, la forma della morale, ma non il suo contenuto (le norme morali). Le norme della moralità, i singoli doveri, non sono in contrasto con l’intento della morale kantiana nel suo complesso, ma rientrano nei compiti non della Critica della ragion pratica, ma della “Dottrina della virtù” della Metafisica dei costumi (1797) che contiene il sistema dei doveri che derivano dalla ragione pratica.
[13] « Con questo libro comincia la mia campagna contro la morale. »
(Nietzsche in Ecce Homo, riferendosi ad Aurora, 1)
Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali (Morgenröte. Gedanken über die moralischen Vorurteile) è un’opera di Friedrich Nietzsche, scritta tra il 1879 e il 1881 e si compone in totale di 575 aforismi, divisi in 5 libri.
Nietzsche propone una sintesi dell’opera in una prefazione datata 1886.
« Allora ho intrapreso qualcosa che non poteva essere fatto da tutti: sono sceso in profondità: ho iniziato a perforare il fondo, ho iniziato a esaminare e a minare una antica credenza su quello che da qualche migliaio d’anni noialtri filosofi abbiamo l’abitudine di edificare come se si fosse sul terreno più solido e di continuare a riedificare anche se ogni edificio sia crollato: ho cominciato a minare la nostra fiducia nella morale […] Con noi è giunto a compimento, se si vuole usare una formula, l’auto superamento della morale. »
Il libro costituisce un progresso rispetto al precedente (Umano, troppo umano), perché Nietzsche qui definisce, con maggiore coerenza e dettagli, un gran numero di tesi (amoralità dell’esistenza, psicologia delle credenze morali, errore della causalità morale, soppressione dell’idea di punizione, necessità di rivalutare le nostre azioni e i nostri sentimenti, ecc.) che costituiranno i temi delle sue opere seguenti: Al di là del bene e del male, Genealogia della morale.
[14] Vivere il caos in quanto apparenza in una modalità dionisiaca in modo da poter continuare a “distruggere” noi stessi per poi ricrearci come un “colpo di dadi”, divenendo il divenire.
[15] «… le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete» (Friedrich Nietzsche).
[16] «Il principio di ragione dice: nihil est sine ratione. Si traduce: nulla è senza ragione, senza fondamento. Ciò che il principio asserisce appare evidente. Evidente è ciò che comprendiamo senza bisogno di altro. Il nostro intelletto non sente il bisogno di sforzarsi ulteriormente per comprendere il principio di ragione. Da che cosa dipende questo?». Così comincia la martellante interrogazione di Heidegger su uno dei temi essenziali del pensiero moderno: quel principio di ragione, enunciato da Leibniz, che è giunto a farsi passare come un’evidenza – ma evidenza non è. Con analisi graduale e serrata, Heidegger risale in questo libro il corso della filosofia occidentale sino alle origini del pensiero moderno. Da lui guidati, giungeremo a capire il «principio di ragione» come «tesi del fondamento» poiché ciò che tale principio mette in gioco è proprio il fondamento, il Grund, di ogni discorso filosofico. Rare volte nell’opera di Heidegger la catena argomentativa è apparsa di tale durezza e saldezza. E lo sbocco della sua speculazione, dopo un vertiginoso percorso, accenna alla rosa di Angelo Silesio, che «è senza perché».
Il principio di ragione è apparso per la prima volta nel 1957.
Il principio di ragion sufficiente viene definito da Gottfried Wilhelm von Leibniz per distinguere le verità di fatto, o contingenti, dalle verità di ragione, cioè le verità necessarie o identiche.
Gottfried Wilhelm von Leibniz
Indice
1 Leibniz
2 Kant
3 Schopenhauer
4 Note
5 Bibliografia
6 Collegamenti esterni
Leibniz
Il principio di ragion sufficiente è quello secondo il quale, per colui che conosca abbastanza bene le cose, si può dare una ragione che da sola sia sufficiente a spiegare una realtà di fatto. Ad esempio di fronte alla realtà di fatto di una nevicata sono in grado di spiegarla a priori, senza ricorrere a sperimentazioni, in base alla stagionalità (ragion sufficiente: quando è inverno nevica) anche se ad aver determinato la nevicata non sono quelle le sole cause che in buona parte ignoro.
« non accade mai niente senza che vi sia una ragione determinante [sufficiente], vale a dire qualcosa che possa servire a rendere ragione a priori del perché una data cosa è esistente […] nonostante che il più delle volte queste ragioni non ci siano note a sufficienza. [1] »
« I nostri ragionamenti si fondano su due grandi principi: a) il principio di contraddizione, in virtù del quale giudichiamo falso ciò che implica contraddizione, e vero ciò che è opposto o contraddittorio al falso. b) il principio di ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo che qualsiasi fatto non potrebbe essere vero o esistente, e qualsiasi enunciato non potrebbe essere veridico, se non ci fosse una ragion sufficiente del perché il fatto o l’enunciato è così e non altrimenti – per quanto le ragioni sufficienti ci risultino per lo più ignote. [2] »
Per le verità di ragione vale invece il principio di identità degli indiscernibili e il principio di non-contraddizione per il quale una proposizione non può essere contemporaneamente vera e falsa.
« Vi sono pure due specie di verità, quelle di ragione, e quelle di fatto. Le verità di ragione sono necessarie ed il loro opposto è impossibile, quelle di fatto sono contingenti ed il loro opposto è possibile. Quando una verità è necessaria, è possibile trovarne la ragione, mediante l’analisi, risolvendola in idee e verità più semplici, fino a quando non si giunga alle verità primitive. [3] »
Mentre dunque per le verità di fatto posso ricorrere a una ragion sufficiente a spiegarla, ma potrebbe essercene un’altra diversa (nell’esempio della nevicata questa si verifica anche quando non è inverno) per le verità di ragione per esempio “il triangolo ha tre angoli” tramite l’analisi (giudizio analitico) ne metto in evidenza una delle sue note caratteristiche (ha tre lati, ha tre angoli, la somma degli angoli interni è uguale a 180º…ecc.) e la esprimo nel predicato. Con il giudizio analitico quindi io non vado molto al di là del primitivo giudizio di identità che mi ha consentito poi di formulare il giudizio, in quanto il predicato era già contenuto nel soggetto (ha tre angoli era già implicito nel concetto di triangolo). Quindi il giudizio analitico, le “verità di ragione” non sono estensive della conoscenza. Ma d’altra parte hanno un rigore logico di necessità. Cioè una volta che io ho affermato che il triangolo è quello che ha tre angoli, non potrò nello stesso senso e nello stesso tempo affermare che il triangolo non ha tre angoli. Le verità di ragione una volta affermate non possono più esser negate e sono inoltre valide per tutti gli uomini dotati di ragione, sono universali.
Kant
Immanuel Kant affermerà che il principio di ragion sufficiente può spiegare parzialmente il fatto ma «non produce la verità» [4]
Schopenhauer
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente.
Arthur Schopenhauer riprenderà la definizione di Christian Wolff sul principio di ragione sufficiente:
(LA)
« nihil est sine ratione sufficiente, cur potius sit, quam non sit [5] »
(IT)
« niente esiste senza una ragione sufficiente per cui esista invece di non esistere »
e lo estenderà genericamente a quel principio per il quale ci si chiede di fronte a una realtà di fatto «Perché?», ciò che poi a ben vedere risulta essere una delle facoltà forniteci a priori nell’intelletto, oltre che una delle prerogative principali delle scienze comunemente intese.
Nell’approcciare ognuna delle seguenti classi di rappresentazione sarà sempre possibile, dunque, applicare tale principio, chiedendosi effettivamente ogni volta il perché, nello specifico, del divenire, del conoscere, dell’essere, dell’agire: a questo dunque intende riferirsi il filosofo adottando la definizione di “quadruplice radice”, ovvero ad un insieme di conoscenze che effettivamente si differenziano l’una dall’altra in quanto all’oggetto conosciuto, ma ciononostante dimostrano, ad una più attenta analisi, di possedere un comune sostrato nella facoltà intellettiva. [6].
[17] Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris è una locuzione latina, che tradotta letteralmente significa: “Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai”.
Le parole quia pulvis es et in pulverem reverteris compaiono nella Vulgata della Bibbia (Genesi 3,19 [1]) allorché Dio, dopo il peccato originale, scaccia Adamo dal giardino dell’Eden condannandolo alla fatica del lavoro e alla morte: “Con il sudore della fronte mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”[2]
[18] Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda, 27 agosto 1770 – Berlino, 14 novembre 1831) è stato un filosofo tedesco, considerato il rappresentante più significativo dell’idealismo tedesco.
Firma di Hegel
È autore di una delle linee di pensiero più profonde e complesse della tradizione occidentale; la sua riflessione filosofica nasce all’interno dell’ambiente culturale tedesco di inizio ‘800, dominato dalla filosofia kantiana e dai suoi sviluppi idealistici.
Oltre che dalla filosofia del suo tempo, la formazione intellettuale di Hegel è profondamente influenzata dallo studio della cultura e filosofia greca antica. Autori fondamentali per Hegel sono Platone[1] e Aristotele[2]: Platone, ad esempio, con il suo Parmenide fornisce per Hegel l’esempio migliore di dialettica; mentre Aristotele con il suo concetto di energeia (actus, atto) è il principale modello teorico per la nozione di soggetto, e con quello di νοήσεως νόησις (noéseos nόesis) per l’identità di soggetto e oggetto[3]. Altro autore importante è Spinoza: per Hegel, infatti, uno dei compiti della filosofia è quello di elaborare la tesi spinoziana per cui “l’Assoluto è sostanza” e svilupparla ulteriormente mostrando che “l’Assoluto è soggetto”.
La filosofia di Hegel segna una svolta decisiva all’interno della storia della filosofia: da un lato, molti dei problemi classici della filosofia moderna verranno riformulati e problematizzati diversamente, come il rapporto mente-natura, soggetto-oggetto, epistemologia-ontologia (in ambito teoretico) o i temi relativi al diritto, alla moralità, allo Stato (in ambito pratico e morale); dall’altro, vengono introdotti nuovi problemi, come quello di dialettica, di negatività, di toglimento (o superamento, Aufhebung in tedesco), la distinzione fra eticità e moralità, fra intelletto e ragione etc.; mentre verrà data maggiore importanza a temi tradizionalmente non facenti parte della filosofia a pieno titolo (arte, religione, storia).
[19] Nella prima parte della Critica della ragion pura, detta Estetica trascendentale, Kant studia i princìpi a priori della sensibilità cioè lo spazio e il tempo. Questo problema è uno dei più rilevanti che incontra nel periodo pre-critico. In quel periodo Newton aveva supposto l’esistenza di uno spazio e di un tempo assoluti, mentre Leibniz aveva negato che spazio e tempo avessero una realtà in se stessi e aveva proposto di considerarli come semplici relazioni tra corpi. Kant affronta questo problema tentando di conciliare le due ipotesi e giunge alla soluzione che spazio e tempo non sono né una realtà oggettiva in se stessa, né semplici relazioni tra oggetti, ma piuttosto forme a priori della sensibilità umana. Esse condizionano ogni nostra esperienza sensibile in quanto le cose ci sono presentate sempre situate all’interno di uno spazio e di un tempo. Da un lato questi dunque operano solo in presenza dei dati dell’esperienza, ma dall’altro sono ricavati per astrazione dalla sensazione.
L’estetica trascendentale è in Kant “l’apprensione immediata dei dati sensibili e ordinati nelle relative forme a priori”. Questa intuizione è la sintesi del contenuto extrasoggettivo che deriva dalle impressioni sensibili, e della forma, propria del soggetto che colloca i dati nello spazio e nel tempo.
Nell’intuizione si costituisce dunque un mondo dell’esperienza organizzato nelle forme dello spazio e del tempo: noi sintetizziamo i dati che ci provengono dalla sensibilità e con le forme a priori che strutturano tali dati. Fondandosi sui dati delle intuizioni, le operazioni conoscitive sono formulate attraverso giudizi sintetico a priori.
Il problema viene affrontato partendo dall’analisi della nostra capacità di conoscere con i sensi: la sensibilità, che ha come caratteristiche fondamentali la passività e la recettività. Noi conosciamo perché siamo modificati dagli oggetti che agiscono sulla nostra capacità di rappresentazione producendo una sensazione. Attraverso questa sensazione però non conosciamo direttamente gli oggetti come sono in se stessi, ma solo come ci appaiono dalle modificazione che provocano su noi stessi cioè attraverso il fenomeno.
Nella conoscenza sensibile che Kant chiama intuizione empirica vengono distinti due elementi: la materia, cioè il contenuto della modificazione sensibile che sta alla base della nostra conoscenza, e la forma, che ordina il contenuto secondo determinati rapporti. La materia è fornita a posteriori dall’esperienza, mentre la forma viene a priori dalla sensibilità. Perciò le forme priori dalla sensibilità non derivano dall’esperienza e per questo Kant le chiama intuizioni pure.
SPAZIO
Lo spazio non è né una realtà oggettiva in se stessa, né semplici relazioni fra oggetti. Lo spazio è la forma a priori del senso esterno. Ciò significa che noi disponiamo nello spazio, secondo rapporti e relazioni nostri, le cose che sono esterne a noi. Lo spazio come forma a priori perciò non può essere ricavato dall’esperienza: infatti, osservando due oggetti e la loro distanza, si presuppone già la loro collocazione in un ordinamento spaziale. Kant perciò lo definisce come “la forma di tutti i fenomeni dei sensi esterni, cioè la condizione soggettiva della sensibilità, sotto la quale soltanto ci è possibile l’intuizione esterna”.
ESPOSIZIONE METAFISICA
(Kant, Critica della ragion pura, 77-88)
Nell’esposizione metafisica, Kant si chiede che cosa sia lo spazio e cerca di dimostrare che è una rappresentazione a priori e una rappresentazione intuitiva pura
Noi ci rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi, tutti ordinati in uno spazio nel quale è possibile determinare la loro grandezza e i loro rapporti specifici. Lo spazio per questo:
non è un concetto empirico che può essere tratto da esperienze esterne; per riferirmi a ciò che è esterno a me devo poterlo rappresentare in uno spazio che deve già essere presente.
la stessa esperienza esterna è possibile solo se esiste la rappresentazione a priori di spazio. Quindi lo spazio è una necessaria rappresentazione a priori che sta alla base di tutte le rappresentazioni esterne
Lo spazio non è un concetto discorsivo, ma un’ intuizione pura. Ci si può rappresentare solo uno spazio unico e i molti luoghi di cui si può parlare non sono altro che parti di un unico e medesimo spazio
ESPOSIZIONE TRASCENDENTALE
(Kant, Critica della ragion pura, 77-88)
Nell’esposizione trascendentale, Kant indaga le condizioni a priori della nostra conoscenza spaziale per dimostrare che solo la rappresentazione di spazio in quanto forma a priori e intuizione pura rende possibili le conoscenze sintetiche a priori proprie della geometria Infatti la geometri è una scienza che determina le proprietà dello spazio sinteticamente, quindi, perché sia possibile una conoscenza di esso lo spazio dev’essere originariamente un’intuizione
Solo se lo spazio è un’intuizione pura, che cioè ha sede solo nel soggetto e costituisce la disposizione di esso a lasciarsi modificare da oggetti é possibile conoscere le proposizioni geometriche, che sono apodittiche, cioè connesse con la coscienza della loro necessità
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TEMPO
Nello stesso modo il TEMPO non è altro che la forma del senso del senso interno, cioè dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno. Ciò significa che noi ordiniamo nel tempo tutti i dati della nostra sensibilità,disponendoli unitariamente e stabilmente secondo l’ordine della coesistenza o della successione. Il tempo perciò non viene ricavato astraendo da una successione di fenomeni, ma, al contrario, è ciò che rende possibile che noi ci rappresentiamo determinati fenomeni in coesistenza o successione.
ESPOSIZIONE METAFISICA
(Kant, Critica della ragion pura, 77-88)
Il tempo non è un concetto empirico tratto da una qualche esperienza. La simultaneità o la successione delle esperienze non si presenterebbe neppure se come fondamento a priori non vi fosse la rappresentazione del tempo.
Il tempo a differenza dello spazio ha una sola dimensione: tempi differenti non sono simultanei, ma successivi (mentre spazi differenti non sono successivi, ma simultanei). Queste leggi fondamentali non sono tratte dall’esperienza perché senza di queste non sarebbe possibile un’esperienza, ma sono anteriori a tali esperienze.
Il tempo è una rappresentazione necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizioni.
Il tempo non è un concetto discorsivo, ma una forma pura dell’intuizione sensibile. Così come per lo spazio, anche tempi differenti sono solo parti di un solo medesimo tempo.
ESPOSIZIONE TRASCENDENTALE
(Kant, Critica della ragion pura, 77-88)
Anche il tempo come intuizione pura rende possibili le conoscenze sintetiche a priori; altrove Kant sosterrà che le conoscenze sintetiche a priori che il tempo rende possibili sono quelle dell’aritmetica e della meccanica pura, o teoria generale del movimento. Il concetto di tempo però ha una portata più ampia rispetto a quello di spazio perché è un’intuizione a priori che sta alla base di tutte le intuizioni empiriche, come dimostrato al terzo punto dell’esposizione metafisica.
Infatti, se in modo diretto esso è la forma a priori del senso interno, in modo indiretto lo è anche del senso esterno, in quanto anche i dati del senso esterno ci giungono solo tramite le modificazioni del senso interno.
Disciplina | Facoltà | Forme a priori |
Estetica trascendentale | Sensibilità | Spazio e tempo |
Analitica trascendentale | Intelletto | Categorie |
Dialettica trascendentale | Ragione | Idee |
[20] La rivoluzione copernicana di Kant
Kant riprese il concetto di rivoluzione copernicana per designare quel ribaltamento della prospettiva filosofica da lui stesso operato. Contrariamente al senso comune infatti, secondo cui l’uomo doveva adattare i propri schemi mentali agli oggetti da conoscere, Kant si propose di dimostrare che il nostro intelletto gioca un ruolo fortemente attivo nel metodo conoscitivo; le proposizioni scientifiche in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo, cioè, non si limitano a recepire passivamente dei dati, ma sono di natura critica e deduttiva. Sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito.
« Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso che egli stesso sapeva già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta […] fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che […] essa deve costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria. »
(Kant, Prefazione alla Critica della ragion pura [1787], Laterza, Roma-Bari 2000)
Come Copernico aveva messo il Sole, e non la Terra, al centro dell’universo, così Kant intendeva ora collocare il soggetto umano al centro del processo conoscitivo. Prima della rivoluzione era l’uomo (soggetto) a doversi adattare alla natura (oggetto), adesso col ribaltamento dei ruoli sarà la natura a doversi adattare all’uomo. Questa nuova concezione fu tra l’altro determinante per la nascita della corrente idealista tedesca che da Kant prese le mosse.